BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

La guerra e lo spettacolo

 

L’orchestrazione della guerra del Golfo fu una dimostrazione luminosa di ciò che i situazionisti chiamano lo spettacolo — lo sviluppo della società moderna pervenuta allo stadio in cui le immagini dominano la vita. La campagna di relazioni pubbliche fu altrettanto importante della campagna militare. Il modo in cui avrebbe giocato questa o quella tattica nei mass media diventò una questione strategica principale. Non era molto importante che i bombardamenti fossero realmente “chirurgici”, purché la copertura lo fosse; se le vittime non comparivano, era come non ce ne fossero. L’“effetto Nintendo” ha funzionato così bene che i generali euforici hanno dovuto mettere in guardia contro un eccesso d’euforia generale, per timore di un ritorno di fiamma. Le interviste di soldati nel deserto hanno rivelato che essi dipendevano, come chiunque altro, quasi completamente dai mass media per sapere ciò che si presumeva stesse accadendo. La dominazione dell’immagine sulla realtà è stata percepita da tutti. Una parte importante della copertura mediatica era dedicata alla copertura della copertura; nello spettacolo stesso furono presentati dei dibattiti superficiali su questo nuovo grado raggiunto dalla spettacolarizzazione universale istantanea ed i suoi effetti sullo spettatore.

Il capitalismo del XIX secolo alienava l’uomo a sé stesso alienandolo dai prodotti della sua attività. Quest’alienazione si è intensificata con la mutazione progressiva di questi prodotti in “produzioni”, che contempliamo passivamente. Il potere dei mass media è soltanto la manifestazione più evidente di questo sviluppo; fondamentalmente lo spettacolo copre tutto ciò che si è trasformato, dalle arti fino agli uomini politici, in rappresentazioni autonome della vita. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini” (Debord, La società dello spettacolo).

Oltre ai profitti legati al commercio delle armi, al controllo del petrolio, agli intrighi del potere internazionale e ad altri fattori che sono stati così ampiamente discussi che non è necessario ritornarvi qui, la guerra è stata terreno di contrasti tra le due forme di base della società dello spettacolo. Nello spettacolare diffuso la gente si ritrova persa in mezzo alla varietà di spettacoli, di merci, di ideologie e di stili concorrenti, che sono offerti al loro consumo. Lo spettacolare diffuso proviene dalle società dove regna la pseudo-abbondanza (l’America è il prototipo e resta sempre il leader mondiale incontrastato della produzione di spettacoli, nonostante il suo declino d’altronde); ma si propaga anche nelle regioni meno sviluppate — dove è uno dei principali mezzi da cui sono dominate quest’ultime. Il regime di Saddam è un esempio della forma concorrenziale, lo spettacolare concentrato, dove la gente è condizionata ad identificarsi nell’immagine omnipresente del capo totalitario, a compensazione del fatto che sono privati praticamente di tutto il resto. Questa concentrazione delle immagini si accompagna di solito ad una concentrazione del potere economico, il capitalismo di Stato, dove è lo Stato che è diventato l’impresa capitalista unica, che possiede tutto (la Russia di Stalin e la Cina di Mao ne sono esempi classici); ma può altresì essere importata nelle economie miste del terzo mondo (come l’Iraq di Saddam) o anche, in tempo di crisi, nelle economie molto sviluppate (come la Germania di Hitler). Ma nell’insieme lo spettacolare concentrato è soltanto un palliativo rudimentale per regioni che non sono ancora riuscite a raggiungere la panoplia delle illusioni dello spettacolare diffuso, ed alla lunga finirà per soccombere alla forma diffusa, più flessibile (come è accaduto recentemente in Europa dell’Est ed in U.R.S.S.). Nello stesso tempo, la forma diffusa tende ad assorbire alcuni tratti particolari della forma concentrata.

La guerra del Golfo ha riflesso questa convergenza. Il mondo chiuso dello spettacolare concentrato di Saddam si è attenuato sotto i fuochi universali dello spettacolare diffuso, mentre per quest’ultimo la guerra serviva come pretesto e campo di sperimentazione per l’introduzione di tecniche tradizionali di potere di tipo “concentrato” — censura, orchestrazione del patriottismo, esclusione dei punti di vista dissidenti. Ma i mass media sono talmente monopolizzati, talmente pervasivi e invadenti e (nonostante qualche accenno di mugugno) talmente asserviti alla politica di governo che metodi apertamente repressivi sono stati appena necessari. Gli spettatori, che potevano credere di stare esprimendo il loro punto di vista con piena indipendenza, rifriggevano la solita solfa e dibattevano le stesse pseudo-questioni che i mass media avevano infuso loro giorno dopo giorno, e come in qualsiasi altro sport adeguato allo spettacolo, “sostenevano” lealmente il proprio gruppo nazionale nel deserto, applaudendo.

Quest’influenza dei mass media si è trovata ancora rafforzata dal condizionamento intimo degli spettatori. Socialmente e psicologicamente repressa, la gente è attirata dagli spettacoli di violenza, che permette alle loro frustrazioni accumulate di esplodere collettivamente in orgasmi di orgoglio e di odio socialmente accettabili. Privati di realizzazioni effettive nel loro lavoro e nei loro svaghi, partecipano, per procura, a progetti militari che, loro sì, hanno effetti ben reali ed innegabili. Mancando di comunità autentica, si eccitano all’idea di contribuire ad uno scopo comune, fosse anche soltanto combattre qualche nemico comune, e reagiscono rabbiosamente contro chiunque osi contraddire l’immagine dell’unanimità patriottica. La vita degli individui può essere un fiasco, la società può anche decomporsi, ma tutte le difficoltà e le incertezze sono temporaneamente dimenticate da quella specie di sicurezza di sé che procura loro l’identificazione con lo Stato.

La guerra è l’espressione più perfetta dello Stato, ed il suo migliore garante. Come il capitalismo deve creare dei bisogni artificiali per le sue merci sempre più superflue, lo Stato deve incessantemente creare dei conflitti artificiali di interessi che richiedano il suo intervento violento. Il fatto che lo Stato fornisca accessoriamente dei “servizi sociali” non fa che camuffare la sua natura profonda di protettore, in altre parole di ricattatore. Il risultato della guerra tra due stati è come se ogni Stato avesse fatto la guerra alla sua popolazione — che deve in seguito pagare le spese. La guerra del Golfo fornisce a tale riguardo un esempio particolarmente enorme: molti Stati si sono affrettati a vendere armi per miliardi di dollari ad un altro Stato, per massacrare in seguito centinaia di migliaia di coscritti e di civili in nome della neutralizzazione del suo formidabile e pericoloso arsenale. Le multinazionali che sono proprietarie di questi stati si tengono ora nuovamente pronte a ricavare ancora più miliardi facendo nuove scorte di armi, e ricostruendo i paesi che hanno devastato.

Qualunque cosa accada in Medio Oriente per le complesse conseguenze della guerra, una cosa è già certa: l’obiettivo centrale di tutti gli stati costituiti o in gestazione, superando i loro discordanti interessi, sarà di accordarsi nello schiacciare o recuperare ogni movimento popolare realmente radicale. Bush e Saddam, Moubarak e Rafsandjani, Shamir ed Arafat sono tutti complici su questo punto. Il governo americano, che insisteva pietosamente sul fatto che la sua guerra “non era diretta contro la popolazione irachena, ma soltanto contro il suo crudele dittatore”, ha appena dato a Saddam una nuova “luce verde”, questa volta per massacrare e torturare gli iracheni che si sono coraggiosamente sollevati contro di lui. Alcuni ufficiali americani ammettono apertamente che preferiscono il mantenimento di un regime militar-poliziesco in Iraq (con o senza Saddam) a qualunque forma d’indipendenza democratica che potrebbe “destabilizzare” la regione — ovvero potrebbe ispirare alle popolazioni vicine ribellioni simili contro i loro dirigenti.

In America, il “successo” della guerra ha deviato l’attenzione dai problemi sociali acuti che il sistema è incapace di risolvere, rafforzando il potere delle tendenze militariste fra i dirigenti e la compiacenza degli spettatori imbottiti di patriottismo. Mentre questi sono occupati a contemplare le eterne riprese sulla guerra e ad esultare alle sfilate della vittoria, la questione più importante resta quella di comprendere ciò che capiterà alla gente che non è stata ingannata dallo show.

* * *

La cosa più significativa nel movimento d’opposizione alla guerra del Golfo è stata la sua spontaneità e la sua diversità inattese. Nello spazio di alcuni giorni, un po’ ovunque centinaia di migliaia di persone, di cui la maggioranza non aveva mai preso parte ad una manifestazione, organizzarono o parteciparono a veglie, blocchi di edifici ufficiali, teach-in e tutta una serie di altre azioni. In febbraio le organizzazioni che avevano chiamato alle enormi marce enormi di gennaio — alcune fazioni di queste avrebbero di norma provato ad organizzare una “unità popolare” sotto il loro controllo burocratico — riconobbero che il movimento sfuggiva completamente a qualsiasi possibilità di centralizzazione e di controllo, ed acconsentirono a lasciare all’iniziativa della base locale l’impulso del movimento. La maggior parte dei partecipanti aveva in un primo momento considerato le grandi marce semplicecemente come punti d’incontro restando più o meno indifferenti alle organizzazioni che ne erano ufficialmente responsabili (spesso non si davano neppure la pena di restare ad ascoltare i tradizionali discorsi declamatori). Il vero scambio non fu tra la tribuna ed il pubblico, ma piuttosto fra gli individui che portavano cartelli da casa, distribuivano i loro opuscoli, suonavano la loro musica, facevano il loro teatro di strada, discutevano le loro idee con i loro amici o degli sconosciuti, trovando in queste occasioni una specie di comunità, di fronte alla follia.

Ma quale pasticcio se queste persone diventano dei semplici numeri, se si lasciano incanalare verso progetti politici d’ordine quantitativo che riducono tutto al minimo denominatore comune, se raccolgono penosamente suffragi per eleggere politici “radicali” che li tradiranno inevitabilmente, se raccolgono firme per sostenere leggi “progessiste” che, ammesso che passino, produrranno nella maggior parte casi soltanto un magro effetto, se reclutano “capi” per fare numero in manifestazioni la cui ampiezza sarà in ogni caso sottovalutata o semplicemente ignorata dei mass media. Se vogliono contestare il sistema gerarchico, è necessario che nei loro metodi e nei loro rapporti respingano la gerarchia. Se vogliono spezzare lo stupore indotto dallo spettacolo, dovranno fare appello alla loro immaginazione. Se vogliono stimolare altra gente, dovranno arrischiarsi in esperienze impegnative.

Coloro che non si sono lasciati ingannare dalla guerra hanno appreso, se non se ne erano resi conto prima, a quale punto i mass media falsifichino la realtà. La partecipazione personale ha reso questa presa di coscienza più viva. Prendere parte ad una marcia per la pace di centomila persone ed accorgersi in seguito che i mass media non gli dedicano più tempo di una manifestazione di alcune decine di persone in favore della guerra, ecco un’esperienza edificante, che fa sentire ciò che è la strana irrealtà dello spettacolo, e che nello stesso tempo rimette in questione la fondatezza delle tattiche basate sulla propagazione dei punti di vista radicali attraverso i mass media. Anche quando la guerra era in corso gli oppositori hanno visto che dovevano confrontarsi con queste questioni, e nelle innumerevoli discussioni e simposi “sulla guerra ed i mass media” non esaminavano soltanto le menzogne flagranti e i black-out ufficiali, ma anche le più sottili tecniche di deformazione mediatica — immagini caricate emotivamente; eventi collocati fuori dal loro contesto storico; limitazione degli argomentii alle opzioni “realiste”; presentazione dei punti di vista di oppositori posti in modo tale che sembrare insignificanti; personalizzazione di realtà complesse (Saddam = Iraq); oggettivazione delle persone (“danni collaterali”); ecc. Queste analisi perdurano ancora, generando una vera industria di articoli, di conferenze e di libri, che studiano tutti gli aspetti della falsificazione mediatica.

I più ingenui vedono le falsificazioni come semplici errori o tendenze che potrebbero essere correttese un numero sufficiente di spettatori telefonasse per lagnarsi, o se facesse pressione sui mass media perché allarghino un po’ la gamma dei punti di vista. Nel suo aspetto più radicale, questa prospettiva si manifesta nella tattica limitata ma comunque esemplare che consiste nel riunirsi per manifestare dinanzi alla sede di alcuni mass media.

Altri, coscienti che i mass media sono proprietà degli stessi centri di interessi che possiedono lo Stato e l’economia, e che dunque serviranno sempre questi stessi interessi, si preoccupano di propagare tramite mass media alternativi l’informazione passata sotto silenzio. Ma la profusione di notizie sensazionaliste generosamente lanciate nello spettacolo è talmente soffocante, che la rivelazione di una nuova menzogna, di uno scandalo o di un’atrocità supplementare raramente produce altro che maggiore confusione e cinismo.

Atri ancora tentano di aprire una breccia in quest’apatia ricorrendo alle tecniche di manipolazione della propaganda e della pubblicità. Una pellicola antimilitarista, ad esempio, si presume di norma che produca un effetto“potente” se presenta una valanga di immagini sugli orrori della guerra. L’effetto subliminare che produce in definitiva una tale valanga va invece a favore della guerra — trovarsi presi in un irresistibile attacco di caos e di violenza (per quanto rimanga confortevolmente vissuto per procura, contemplandolo), è proprio quello che, nella guerra, è eccitante per degli spettatori disincantati. Bombardare la gente di immagini che si succedono ad un ritmo accelerato e che suscita emozioni intense non fa che rafforzare ancora di più la sensazione familiare di confusione, di fronte ad un mondo che sfugge loro. Gli spettatori, la cui attenzione non può essere mobilitata oltre i trenta secondi, possono provare momentaneamente disgusto per la guerra, alla vista di bambini bruciati dal napalm, ma possono altrettanto facilmente essere incitati ad una furia fascista il giorno seguente da altre immagini — delle immagini di gente che brucia la bandiera, ad esempio.

Nonostante i loro messaggi esplicitamente radicali, o supposti tali, i mass media alternativi hanno riprodotto generalmente il rapporto dominante spettacolo-spettatore. Si tratta di minare le basi di questo rapporto — di combattere il condizionamento che prima di tutto predispone la gente alle manipolazioni mediatiche. il che significa in definitiva combattere l’organizzazione sociale che produce questo condizionamento, che trasforma in spettatori di avventure prefabbricate la gente resa incapace di creare le proprie avventure.

UFFICIO DEI SEGRETI PUBBLICI
3 aprile 1991

 


Versione italiana di The War and the Spectacle, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

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