BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

Confessioni di un
garbato nemico dello Stato

 

Parte 1 (1945-1969)

Infanzia
Come diventai ateo
Shimer College e le mie prime avventure indipendenti
Berkeley negli anni 60
Kenneth Rexroth
Come diventai anarchico

 

 


 

 

“Se il mondo si lagna che io parli troppo di me, io mi
lagno che non pensi soltanto a sé.” (Montaigne)

 

Infanzia

Sono nato nel 1945 in Luisiana, dove la mia madre era andata a raggiungere mio padre che prestava il servizio militare. Durante la guerra, vivevamo nell’azienda agricola dei miei nonni materni nel Minnesota. Quando mio padre ritornò due anni più tardi, ci trasferimmo a Plainstown, la sua città natale, nell’Ozarks, regione posta tra il sud del Missouri ed il nord dell’Arkansas.

In questa città un po’ in ritardo in rapporto al resto del paese, si poteva ancora gustare la vita americana provinciale e pretelevisiva dell’inizio del secolo, idealizzata dall’illustratore Norman Rockwell — il mondo delle sedie a dondolo sotto le verande e dei pomeriggi oziosi, dei Boy Scouts e delle partite di baseball su terreni di fortuna, delle quadriglie popolari e dei picnic parrocchiali, delle fiere regionali, dei campi d’estate, delle foglie d’autunno, e dei Natali sotto la neve. Questo stile di vita è stato spesso denigrato, ma aveva comunque alcuni vantaggi rispetto al tipo d’esistenza suburbana ed artificiale che iniziava già a sostituirlo. Nonostante la loro ingenuità, a ben vedere, gli abitanti dello stato la cui moneta ufficiale è “credo soltanto a ciò che vedo” conservavano sempre qualche traccia di scetticismo e di buon senso twainiano (Mark Twain era del Missouri). Anche le persone più povere possedevano spesso la loro casa o la loro fattoria. La mutua assistenza delle famiglie estese dava una certa sicurezza nei momenti difficili. La vita era tranquilla. Un bambino poteva crescere senza rendersi ben conto dei problemi del mondo esterno.

I soggiorni annuali nell’azienda agricola del Minnesota permettevano di conservare il legame con le vecchie tradizioni. Mi rivedo ancora in procinto di frugare nell’immenso granaio tra il fieno della vecchia stalla, di esplorare la vecchia casa con i suoi mobili in vecchio stile e piena di cose affascinanti, come uno scivolo per la biancheria che andava dal primo piano fino allo scantinato, che sapeva di muffa ed era riempito di ninnoli e di aggeggi strani del secolo precedente. O di passeggiare con mio nonno, un tipo attento e pieno di brio che lavorava sempre nei campi fino a novant’anni.

Mio padre era uno degli ultimi medici di famiglia della vecchia scuola, che aiutava a partorire generazioni successive di donne, prendendo soltanto cinque dollari per una visita a domicilio, anche in mezzo alla notte, ed a volte niente se la famiglia si trovava in difficoltà. Come suo padre prima di lui, lavorava a tempo pieno come medico, ed in più come agricoltore. E se ha terminato l’esercizio della medicina due anni fa, si occupa ancora un po’ dell’azienda agricola. Mia madre era diplomata in fisioterapia, ma passava la maggior parte del tempo a prendersi cura della casa, delle mie due sorelle e di me.

Sam Thomas il mio primo e migliore amico, aveva due anni più di me ed abitavano a due passi. Facevamo tutti i giochi tipici — baseball, basketball, calcio americano, badminton, ping-pong, kick-the-can, biglie, carte, Monopoli, Scrabble... Ma quello che ci piaceva di più, erano le attività che noi stessi inventavamo: complicate costruzioni con Lincoln Logs; lo schieramento di piccoli cowboys e indiani di metallo tra forti e tunnel che costruivamo con la sabbia; la costruzione di due piccole capanne, di cui una su un albero; l’organizzazione di spettacoli e di fiere per gli altri bambini delle vicinanze.

Le memorie della scuola primaria sono ugualmente care al mio cuore. Senza essere realmente “progressista”, il sistema d’insegnamento era abbastanza flessibile e andavo piuttosto bene. Poiché apprendevo gli argomenti delle lezioni senza sforzo, le insegnanti mi dispensavano da una parte degli obblighi ordinari per permettermi di proseguire progetti indipendenti, da solo o in società con altri allievi dotati: ricerche di geografia, storia, astronomia o fisica nucleare nelle enciclopedie, compilazione di elenchi, di diagrammi e di tabelle, di esperimenti guidati, di relazioni scientifiche. Fuori dalla scuola divoravo libri — scienze, storia ed il fumetto Pogo erano le mie letture favorite — ed imparavo alcuni nuovi giochi: tennis, biliardo, scacchi e soprattutto il bridge, un gioco affascinante. Leggo del resto ancora con piacere dei libri sulla strategia del bridge, benché abbia giocato soltanto raramente da quando ho lasciato la casa. Ma ricordo ancora adesso, con tenerezza, le attività che avevamo inventato per noi stessi, i miei amici ed io. In tre, abbiamo creato un’isola immaginaria abitata da famiglie di personaggi ritagliati in gommapiuma, per i quali avevamo composto genealogie ed inventato storie dettagliate. Con un altro amico, abbiamo inventato un gioco ispirato dalla passione per i grandi viaggi di scoperta. Gli ossessi della correctness political ci troveranno una bella occasione per mostrare i denti. Il mio amico era l’Inghilterra del XVI secolo, e io ero la Francia, e concorrevamo per l’esplorazione e la colonizzazione del resto del mondo. Volta a volta, con gli occhi chiusi, mettevamo il dito su un mappamondo, quindi gettavamo tre monete: la combinazione di testa e croce determinava la distanza che potevamo raggiungere a partire da quel punto (questa distanza variava a seconda che il viaggio fosse realizzato via mare, lungo un fiume o per terra) e quanto territorio potevamo rivendicare. Credo che ci fossero altre norme che disciplinassero le fortificazioni e le battaglie nei territori contestati. Tutto era segnato in colori diversi su una carta del mondo in bianco. Durante i fine settimana noi passavamo spesso la notte insieme, giocando fino a che i nostri genitori ci mandavano a dormire e per una buona parte del giorno dopo, fino alla fine del gioco per esaurimento o perché l’intera mappa era stata finalmente divisa tra noi.

Passavo anche dei bei momenti con gli scouts, acquisendo in più alcune competenze utili: salvataggio, pronto soccorso, destrezza in attività diverse, conoscenze di storia naturale, camping. E la canoa, combinazione sublima di quiete e di movimento silenzioso su un corso d’acqua cristallino e sinuoso ai piedi delle vecchie falesie erose da intemperie millenarie, osservando i pesci e il brulichio dei gamberi e di altri animali in fondo al fiume... Nonostante i suoi discutibili aspetti patriottici e quasi militaristi, lo scoutismo metteva in rilievo i principi ecologici e professava per l’indiano americano un rispetto insolito per l’epoca. La mia iniziazione all’ “Ordine della freccia” includeva un giorno intero in silenzio totale in mezzo al bosco; ispirata dai riti indiani, non era molto diversa dalle mie successive esperienze Zen.

Guardando indietro, mi rendo conto della fortuna di aver vissuto tutte quest’esperienze. Grazie a genitori affettuosi ed agli incoraggiamenti delle mie insegnanti, potevo esplorare le cose da solo e provare le gioie dell’attività indipendente ed autonoma. Io rimpiango i bambini d’oggi che passano tutto il loro tempo davanti alla televisione ed ai videogiochi senza rendersi conto che è molto più divertente leggere o creare i propri progetti. Da parte mia ho amato qualcuna delle prime trasmissioni televisive, ma comperammo il nostro primo televisore abbastanza tardi, ed avevo già avuto l’occasione di scoprire che i libri erano la porta aperta a mondi molto più ricchi e molto più interessanti.


Come diventai ateo

Fra tutti i ricordi d’infanzia, i soli che siano sgradevoli riguardano la religione. Come la maggior parte degli abitanti di Plainstown, i miei genitori mi avevano dato un’istruzione protestante abbastanza conservatrice. Quando ero bambino accettavo facilmente la versione del cristianesimo presentata a dottrina; ma crescendo, iniziavo a comprendere ciò che la Bibbia voleva dire realmente e la minaccia dell’inferno iniziò ad assillarmi. Anche pensando di potervi sfuggire, ero sconvolto all’idea che chiunque potesse essere consegnato alla tortura per l’eternità, fosse anche il peggiore dei peccatori. Non riuscivo ad ammettere che uno che si dice “Dio d’amore” si rivelasse infinitamente più crudele del peggior sadico dittatore. Ma avevo difficoltà a mettere in questione il dogma biblico quando tutti coloro che conoscevo sembravano accettarlo, ivi compresi degli adulti apparentemente intelligenti. E ad eccezione di alcuni vaghi riferimenti ai “comunisti atei” che vivevano all’altro capo del mondo, non ho mai sentito dire che si potesse professare un’altra credenza.

Ma un giorno, a 13 anni, sfogliando l’antologia The World of Mathematics di James Newman, ho iniziato a leggere un articolo autobiografico di Bertrand Russell. Dopo alcune pagine mi sono inbattutto in un passaggio dove diceva come era diventato agnostico in gioventù rendendosi conto del carattere erroneo di una delle argomentazioni classiche avanzate come prova dell’esistenza di Dio. Ero sbalordito. Russell non lo accennava che en passant, ma la scoperta che una persona intelligente poteva respingere la religione bastò a farmi riflettere. Il giorno dopo, all’ora di andare a dormine, ero sul punto di fare la mia preghiera abituale quando mi sono detto: “Ma allora, cos’è che stai facendo? Tu non credi più a tutto questo!”

Non osai dire parola a nessuno per più di un anno. In apparenza restavo un ragazzo educato, convenzionale e devoto, facendo ciò che serve per progredire nei ranghi degli scouts, fino ad ottenere il grado supremo di “aquila”, e facendo finta di pensare allo stesso modo di tutti gli altri. Ma al tempo stesso riconsideravo segretamente tutto ciò che avevo accettato prima.

L’anno successivo, quando iniziai ad andare al liceo, incontrai alcuni allievi un po’ più vecchi di me che mettevano apertamente in discussione la religione, cosa che fu sufficiente perché facessi la stessa cosa. Ne risultò un piccolo scandalo. Il fatto che il ragazzo lodato affettuosamente per anni dalle insegnanti come il bambino più intelligente della città avesse improvvisamente dichiarato il suo ateismo colpì tutti. Alcuni allievi mi mostravano col dito sussurrando che ero candidato all’inferno, i professori non sapevano come reagire alle mie osservazioni impertinenti, ed i miei poveri genitori, che non sapevano assolutamente come tale cosa fosse potuta accadere, mi inviarono da uno psicologo.

Una volta che compresi l’assurdità del cristianesimo, iniziai a dubitare di altre idee ricevute. Mi è apparso ovvio, ad esempio, che “l’americanismo capitalista” era anche sommerso di assurdità. Non avevo tuttavia alcun interesse per la politica perché secondo la filosofia edonista ed amorale che avevo adottato, non dovevo tenere alcun conto del bene pubblico a meno che incontrasse i miei interessi. Ero per principio contro ogni morale, benché in pratica non facessi nulla di più immorale che essere insupportabilmente sarcastico. Non esitavo più ad esprimere il mio disprezzo per tutti gli aspetti della vita convenzionale, fossero la cultura popolare, i costumi sociali o il contenuto dei miei studi.

Già da qualche tempo, la mia vera educazione proveniva piuttosto dalle mie letture personali e dalle discussioni con alcuni amici che favevano più o meno le stesse letture. Amavo sempre le scienze e la storia, ma mi interessavo sempre più alla letteratura, ed in due o tre anni lessi un buon numero di classici — Omero, la mitologia greca, L’asino d’oro, Le mille e una notte, Omar Kháyyám, il Decameron, Chaucer, Rabelais, Don Chisciotte, Tom Jones, Tristram Shandy, Poe, Melville, Dostoijevski, Tolstoij, Bernard Shaw, Aldous Huxley, Il Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell, per citare alcuni dei miei preferiti. Poiché avevo un’esperienza della vita molto scarsa, ci furono molte sfumature di questi lavori che non colsi; ma almeno mi diedero alcune nozioni della diversità dei modi di vivere e di pensare nel mondo intero. Certamente mi sentivo attirato soprattutto dagli autori più anticonvenzionali. Nietzsche era uno dei miei favoriti — mi piaceva scandalizzare i professori e gli allievi leggendo dei passaggi delle sue critiche sferzanti del cristianesimo. Ma il mio idolo era James Joyce. Non mi sono interessato a Joyce per molto tempo, ma all’epoca ero veramente impressionato dalle sue innovazioni stilistiche e dai suoi riferimenti multiculturali, ed ho divorato tutti i suoi libri, anche Finnegans Wake, come pure molte opere dedicate a lui. Ero anche un po’ francofilo: trovavo Stendhal e Flaubert più interessanti dei romanzieri vittoriani, ed ero già affascinato da Baudelaire e Rimbaud mentre avevo ancora una conoscenza modesta della poesia inglese o americana.

Ho scoperto i ribelli della letteratura più attuali con la mediazione di J.R. Wunderle, un amico che era cresciuto a Saint Louis e che aveva dunque un po’ più d’esperienza cosmopolita degli altri miei amici. Avevo già sentito delle voci sui beats, ma fu J.R. che mi fece conoscere gli scritti di Ginsberg e di Kerouac. Inoltre, esibiva lui stesso un certo stile bohèmien, nella debole misura del possibile per un liceale che abitava in una città provinciale molto retro. Poco più tardi andò a Venice West (vicino a Los Angeles) e visse per qualche tempo nel cuore dell’ambiente beat.

Da parte mia, non ero pronto. A parte alcune vacanze in famiglia, non ero mai uscito dall’Ozarks, e non avevo mai lavorato, se non per falciare l’erba nelle vicinanze. Ma volevo assolutamente fuggire da Plainstown. La prospettiva di viverci ancora altri due anni mi deprimeva profondamente, tanto più che vedevo molti dei miei amici più vecchi partire per l’università.

Un caso fortunato si verificò. Un consulente del mio liceo, al quale sarò per sempre riconoscente, si imbatté in un catalogo dello Shimer College, una piccola scuola d’insegnamento superiore che accettava allievi eccezionali senza attendere che avessero ottenuto la maturità, e pensò immediatamente a me. Sembrava la soluzione ideale per tutti. Avrei potuto andare via da Plainstown ed entrare in un ambiente intelettualmente interessante senza dovermela sbrogliare da solo. I miei professori furono certamente sollevati all’apprendere che non sarei più stato là ad innervosirli; e per i miei genitori era l’occasione giusta per risolvere un problema sul quale non avevano alcuna presa.


Shimer College e le mie prime avventure indipendenti

Mi iscrissi a Shimer nell’autunno del 1961, ed immediatamente il posto mi piacque. Situato in una piccola città del Nord-ovest dell’Illinois, Shimer si ispirava ad un programma che era stato sviluppato all’università di Chicago negli anni 30 da parte di Robert Hutchins e Mortimer Adler. Contava circa trecento studenti. La media per classe era di una decina. Non c’erano manuali scolastici, e quasi neppure lezioni. Non si trascuravano le conoscenze, ma si attribuiva più importanza all’apprendimento di un metodo di pensiero, ad interrogare, a sperimentare e ad esprimere le proprie idee partecipando a tavole rotonde su testi classici ricchi ed originali. Il ruolo del professore era soltanto quello di facilitare la discussione chiedendo, di tanto in tanto, una precisazione pertinente. Eravamo incoraggiati ad esprimere qualsiasi punto di vista, anche il meno ortodosso, ma dovevamo difenderlo con competenza; una semplice opinione senza motivazione non bastava.

Shimer non era né socialmente radicale, né libertario, come lo sono state diverse scuole sperimentali prima e dopo. L’amministrazione era abbastanza convenzionale ed i regolamenti abbastanza conservatori. Il programma di studi era eurocentrista ed attribuiva forse una troppo grande importanza ai discorsi filosofici sistematici come quelli di Aristotele e di Tommaso d’Aquino, preferiti da Adler e di Hutchins (un quolibet diceva che l’università di Chicago sotto Hutchins era “un’università protestante dove i professori ebrei insegnavano filosofia cattolica a studenti atei”).

Ma quali che siano i difetti del sistema di Shimer, era almeno un sistema, ed un sistema abbastanza coerente. Tre anni su quattro erano dedicati ad un percorso comune obbligatorio strettamente correlato, comprendente lettere, scienze umane, scienze naturali, storia e filosofia, che lasciava soltanto poco spazio ad insegnamenti facoltativi. Ma con queste conoscenze di fondo gli studenti non avevano generalmente alcun problema a mettersi alla pari per le loro specializzazioni ulteriori. D’altronde, contrariamente ai conservatori che difendevano l’insegnamento classico, Adler ed Hutchins non destinavano il loro programma ad un’elite minoritaria. Pensavano che tutti si sarebbero potuti e dovuti misurare con le questioni fondamentali trattate nelle grandi opere, come base di un’educazione che doveva proseguire durante tutta la vita. Se avevano l’ingenuità di accettare senza spirito critico la “società democratica” occidentale, avevano almeno intimato a questa società di vivere in accordo con i suoi principi, mostrando che il suo funzionamento regolare richiedeva la partecipazione di cittadini informati e critici, ed evidenziando che ciò che al giorno d’oggi figura come istruzione è molto lontano dal permettere la realizzazione di questa ambizione.

Benché questi studi fossero abbastanza interessanti, imparavo in realtà molto di più dagli altri studenti. Il mio compagno di camera, Michael Beardsley, usciva da un ambiente simile al mio: veniva da una piccola città del Texas ed aveva saltato come me gli ultimi due anni del liceo. Ma la maggior parte dei miei nuovi amici erano ebrei di Chicago incarnando una cultura radicale, scettica, umanista e cosmopolita che era per me una rinfrescante novità. C’erano anche alcuni personaggi più apolitici, di cui uno dei più memorabili era un prodigio negli scacchi e un grande esperto di musica classica, che si comportava come un satrapo orientale e che si candidò una volta come rappresentante studentesco con la sola promessa elettorale che la sua elezione sarebbe stata gratificante per il suo ego! Fu eletto, naturalmente. C’era anche qualche tipo più convenzionale, ma erano chiaramente minoritari, ed anche quelli si divertivano come noi, con un orgoglio perverso, del record nazionale detenuto da Shimer del più grande numero di sconfitte consecutive nel solo sport in cui noi concorrevamo con le altre università, il basket.

A Shimer, e durante le vacanze a Chicago, i miei nuovi amici mi fecero conoscere l’alcool, il jazz, la musica popolare e classica, il cinema straniero, le cucine di tutti i paesi, la politica gauchiste ed un ambiente multirazziale pieno di brio. Benché Plainstown non fosse francamente razzista come gli stati del profondo Sud, c’era una segregazione di fatto tra le varie zone, in modo che non incontravo quasi mai i neri. Ce n’era qualcuno a Shimer, ma ne incontrai molti alle feste dei miei amici a Chicago. Era l’età d’oro del primo movimento per i diritti civili e regnava un’amicizia calorosa, genuina ed entusiasta, ben diversa dalla relazione interrazziale difficile e sospettosa che si sviluppò alcuni anni più tardi negli ambienti radicali. Benché rimanessi per principio apolitico, iniziavo ad abbandonare il mio amoralismo artefatto. I miei nuovi amici ed il nuovo ambiente nel quale mi trovavo mi aiutavano a scogelarmi, a diventare più umano e più umanista.

Un’altra influenza importante che andava nella stessa direzione era la rinascita della musica popolare tradizionale. La sua semplicità e la sua purezza presentavano un contrasto rinfrescante con la musica insipida in voga all’epoca. Il primo album di Joan Baez era il più popolare al campus, ma alcuni dei miei amici erano stati educati dai loro genitori progessisti con Woody Guthrie e Pete Seeger, ed avevano già sviluppato gusti da puristi. Mi fecero conoscere degli artisti più vecchi, più autentici e più appassionanti — soprattutto il grande Leadbelly. Fui anche ispirato dal primo cantante di questo genere che vidi personalmente, Jack Elliott, interprete della tradizione di Guthrie, che viaggiava per tutto il paese al volante di un vecchio furgone. Non aspirai a nient’altro che a suonare la chitarra come lui. Del resto, tale aspirazione non era completamente irrealistica. La musica popolare si prestava alla partecipazione: chiunque può cantare con gli altri, e non è molto difficile suonare uno strumento, almeno a livello modesto. Molti dei miei amici lo facevano già. Cominciavo ad imparare a suonare la chitarra e più tardi imparai anche alcune semplici arie col violino.

Quell’inverno, dopo alcune relazioni che non avevano superato il petting spinto, trovai infine una ragazza più disponibile. Il felice evento si produsse nell’ufficio della Folklore Society, che aveva per caso un sofà adatto. Trovare un posto per fare l’amore era un problema ricorrente a Shimer, prima che i regolamenti dei dormitori fossero liberalizzati alcuni anni più tardi. In primavera ed in autunno ricorrevamo al campo da golf, che non ha mai avuto nessun altro impiego, o al vicino cimitero; ma in inverno faceva troppo freddo, e cercammo ogni sorta di altri luoghi, precari ma almeno riparati.

Alcune settimane più tardi persi anche ciò che si potrebbe chiamare la mia verginità spirituale. Occorre ricordare che nel 1962 le droghe erano praticamente sconosciute a parte alcuni ambienti urbani marginali. Rari erano gli studenti che avevano provato anche soltanto la marijuana. Quanto agli psichedelici, quasi nessuno ne aveva sentito parlare e non erano ancora neppure illegali. Con Mike Beardsley ordinaio una grande scatola di peyotl ad un ranch del Texas, che ci fu debitamente consegnata senza che i servizi postali né le autorità scolastiche vi prestassero la minima attenzione. Alcuni giorni più tardi, senza sapere molto bene ciò che ci attendeva, ne ingerimmo un po’.

Dopo la nausea che accompagna inevitabilmente l’assunzione del peyotl, iniziammo a sentir salire dentro di noi qualcosa di sconosciuto ed estremamente inquietante. Credetti dapprima di stare diventando pazzo. Poi riusciti a rilassarmi e a vivere questa nuova esperienza. Passammo quasi tutto il giorno nella nostra camera, distesi e con gli occhi chiusi, osservando i motivi cangianti evocati da diversi brani musicali, di cui i più indimenticabili erano i primi tre concerti per piano di Prokofiev che ci piacevano per la loro combinazione unica di chiarezza classica, di stravaganza romantica e di slancio bizzarro. Tutto era fresco, come se fossimo ritornati al tempo dell’infanzia o se ci fossimo risvegliati nel giardino dell’Eden; o, come se le cose che avevamo visto fino allora soltanto in bianco e nero e piatte fossero apparse improvvisamente a colori ed in rilievo. Ma non sono soltanto gli effetti sensoriali che resero l’esperienza così sconvolgente, ma il fatto che la stessa sensazione di “sé” era scossa. Non osservavamo tutto ciò dall’esterno; noi stessi facevano parte di questo mondo vibrante e pulsante.

Con la testa piena delle visioni di Rimbaud e di Kerouac, trascuravamo le nostre lezioni ecominciavamo a fantasticare di lasciare la scuola per scoprire il mondo. In primavera l’abbiamo fatto. Mike e la sua ragazza Nancy andarono a Berkeley, dove lei aveva degli amici. Decisi di andare a Venice West, dove avevo alcuni contatti grazie a J.R.

Venice era piena di poeti beat, di pittori espressionisti astratti, di musicisti di jazz, di non conformisti sessuali, di tossici, di barboni, di prostitute, di truffatori — e di numerosi poliziotti della buoncostume. Questo era veramente appassionante, ma anche molto paranoico; ben diverso dallo spirito aperto, rilassato ed allegro della scena hippie posteriore. E senza l’ammortizzatore economico che avevano gli hippies (che nel caso potevano trasformarsi facilmente in mendicant), era molto più povero. Non sapendo mai da dove sarebbe giunto il mio prossimo pasto, né dove avrei finito per passare la notte, io vivacchiavo in mille modi...

Alla fine mi feci prendere al laccio. Ma poiché ero ancora minorenne e la mia casella giudiziale era bianca, rimasi soltanto tre giorni in prigione prima di essere spedito a Plainstown ed essere affidato alla custodia dei miei genitori.

Questa fortunatamente è stata la mia unica esperienza in prigione. Il fatto di essere rinchiuso è già penoso di per sé, ma quello che mi aveva veramente scoraggiato, era l’atmosfera brutta, malsana, inumana che regnava in quei luoghi. Essendo un ragazzo bianco della classe media, non stavo facendo che qualche cazzata e alla fine rimanevo sempre libero di riprendere una vita più comoda; ma non dimenticherò mai coloro che non sono stati altrettanto favoriti dal destino. Pensare che della gente è rinchiusa per anni mi fa andare in collera più di qualsiasi altra cosa.

Per alcuni mesi vissi con i miei genitori, lavorando in una libreria e leggendo molto — Blake, Thoreau, Lautréamont, Breton, Céline, Hesse, D.T. Suzuki, Alan Watts, e soprattutto quello che era diventato il mio autore preferito, Henry Miller. Dopo decenni di divieto i suoi due Tropici erano stati appena pubblicati in America, e mi hanno abbagliato. Ecco infine, pensavo, una persona vera che parla della vita reale, al di là di tutti gli artifici della letteratura. Oggi non lo prendo più sul serio come pensatore, ma apprezzo sempre lo humour ed il brio dei suoi romanzi autobiografici.

Un’altra influenza salutare e più duratura fu quella di Gary Snyder. Lo conoscevo già come “Japhy Ryder”, eroe di The Dharma Bums di Kerouac. È un bel libro, ma alcuni aspetti di Snyder superavano largamente la capacità di comprensione di Kerouac. I suoi scritti erano più lucidi, e la sua vita era più esemplare. Ciò che avevo letto sul Buddhismo Zen mi aveva intrigato, ma ecco una persona che aveva realmente studiato le lingue orientali e che era anche andata in Giappone per anni di iniziazioni rigorosa allo Zen. Ero molto distante da questo tipo di disciplina personale, ma iniziavo a leggere sempre più libri sull’argomento con l’idea che avrei potuto esplorare praticamente questa strada se ne avessi avuto l’occasione.

Oltre alla poesia di Snyder, fui colpito dal suo saggio Buddhist Anarchism [L’anarchismo buddista] (ristampato più tardi in Earth House Hold con il titolo “Buddhism and the Coming Revolution”). Nonostante la mia simpatia per i diritti civili e le altre cause di protesta sposate da alcuni miei amici di Shimer, ero rimasto fino a quel momento apolitico per principio, ritenendo, come Henry Miller, che la politica era soltanto una stronzata superficiale e che un cambiamento fondamentale doveva esigere una qualche sorta di “rivoluzione del cuore”. Odiando istintivamente ciò che Rexroth chiama la menzogna sociale, l’obiettivo di permettere alla gente di condurre una “vita normale” non mi sembrava degno d’interesse, dato che l’attuale vita normale era precisamente ciò che avevo disprezzato dall’età di tredici anni. Il saggio di Snyder non mi fece abbandonare questo punto di vista, ma mi mostrò come una prospettiva radicale poteva collegarsi ad una ricerca spirituale. Non prestavo ancora attenzione alle questioni politiche, ma la strada era aperta ad un impegno sociale futuro.

Nel gennaio 1963 avevo guadagnato abbastanza denaro con il mio lavoro alla libreria e giocando al poker in un circolo locale per poter lasciare il lavoro e riprendere la strada. Dapprima, feci autostop fino a Saint Louis dove trovai J.R. che frequentava un ambiente di motociclisti e lavorava in un ospedale psichiatrico, la cosa più inattesa che si potesse immaginare. Lo stesso J.R. se non era esattamente un pazzo, era da sempre un personaggio abbastanza eccentrico. Negli anni seguenti adottò di seguito tanti ruoli intenzionalmente eccessivi, da quello di ciarlatano alla maniera di W.C. Fields fino a quello di reazionario bisbetico, passando a quello di pioniere del Far West, che non sono sicuro che egli stesso abbia sempre distinto l’imitazione dalla realtà. Alcuni anni fa è morto di cirrosi epatica, all’età di 46 anni.

Quindi partii per un secondo viaggio in California, questa volta con Sam. Non lo avevo visto spesso dai tempi dell’infanzia — eravamo andati in scuole diverse, ed era rimasto un ragazzo abbastanza convenzionale e gregario quando io ero già in fervente rivolta intellettuale. Ma una volta all’università cambiò rapidamente, e quando lo rividi aveva scoperto il jazz, lasciato crescere la barba ed iniziava a scrivere poesie libere. Durante le vacanze scolastiche abbiamo preso un’automobile da un commerciante del Missouri, siamo andati a Berkeley, quindi a Los Angeles dove abbiamo visto i miei amici di Venice West e dove l’abbiamo consegnata, per ritornare infine nel Missouri in pullman, tutto nell’arco di dieci giorni.

In seguito andai in Texas, dove Mike e Nancy Beardsley erano ritornati quando avevano avuto il loro bambino. Quell’epoca mi sembra ancora magica, sebbene riesca a ricordarmi soltanto vagamente alcune delle nostre avventure — saltare su un treno merci in movimento semplicemente per farne l’esperienza; provare la belladonna, la droga velenosa degli stregoni, e trovarsi in un mondo psicotico e da incubo... Anche se le nostre avventure erano a volte piuttosto insensate, esploravamo le cose da soli, ed i mass media non propagandavano ancora ruoli di “ribelli” da imitare. Isolati nel cuore dell’America, incontrando di tanto in tanto delle anime gemelle con le quali condividevamo appassionatamente quella scoperta, quell’aspirazione o quella premonizione, cercando a tentoni il tipo di prospettiva che avrebbe preso forma alcuni anni più tardi nella controcultura hip, presentivamo che si stava plasmando qualcosa di nuovo. Ma la sola cosa di cui eravamo sicuri, era che il mondo in cui ci trovavamo era fondamentalmente assurdo. E questo mondo era ancora completamente inconsapevole di ciò che si stava preparando. Occorre ricordare che la maggior parte delle cose per le quali gli anni 60 sono diventati famosi non prese avvio in realtà (o almeno non sono state trasmesse al pubblico) che nel 1965-66.

In primavera traslocammo a Chicago e ci trasferimmo insieme in un appartamento di Hyde Park, la zona universitaria. Lavoravo occasionalmente, prima in un deposito, e poi, il che era più piacevole, in un negozio che vendeva strumenti musicali e dischi di musica popolare tradizionale; oppure tenevo il bambino mentre Mike e Nancy lavoravano. Frequentavo anche degli altri amici che avevo conosciuto a Shimer. Scoprii inoltre un piccolo centro Zen che mi diede una prima infarinatura di meditazione tradizionale.

Quest’esperienza, ed il fatto che iniziavo a stancarmi degli inconvenienti della povertà, mi spinse ad organizzare la mia vita e a passare ad altre cose. Dunque decisi di tornare a Shimer per conseguire il diploma, nella convinzione, avendo Snyder come esempio, di proseguire gli studi orientalistici di terzo livello, e forse in seguito andare in Giappone per iniziarmi allo Zen in un monastero.

Rientrato a Shimer, avevo due attività principali al di fuori delle mie ore di corso. La prima era di fare all’amore con la mia bella ragazza, Aili. La seconda era la musica popolare. Con molti amici, suonavamo in qualsiasi occasione, modellando il nostro stile sulle registrazioni più vecchie e più autentiche — ballate ed arie di violino degli Appalachi, bands di strumenti a corda (Charlie Poole, Gid Tanner, Clarence Ashley, i Carolina Tar Heels), field hollers, jug bands, country blues (Blind Lemon Jefferson, Sleepy John Estes, Charley Patton, Son House, Robert Johnson).

L’età d’oro era quella degli anni 20, quando i musicisti popolari di tutte le regioni del paese erano registrati quasi a caso da piccole società che cercavano degli eventuali hits. C’era una grande varietà di stili; quelli di una regione erano spesso diversi da quelli dello stato o anche della contea vicina. La crisi degli anni 30 distrusse il mercato locale, i dischi e la radio favorivano una crescente omogeneizzazione, i musicisti locali erano sempre più influenzati dalle stars nazionali, come Jimmie Rodgers, la famiglia Carter ed i primi gruppi bluegrass e country (o in modo simile nella musica nera, dal blues e dal jazz più urbanizzati). Mi piacevano alcune delle canzoni di Rodgers e dei Carter, ma era il limite più moderno dei miei gusti. La musica bluegrass mi sembrava troppo pacchiana, e non aveva il carattere affascinante delle vecchie ballate e delle vecchie arie di montagna (non parlo neppure della sensibilità leziosa della musica country.) Per trovare della vera musica d’epoca, ricorrevamo alle registrazioni commerciali degli anni 20, a quelli realizzate localmente negli anni 30 per la biblioteca nazionale, ed ai concerti di alcuni grandi artisti tradizionali sopravvissuti che erano stati riscoperti e condotti a suonare dinanzi ad un pubblico urbano in estasi. Per i puristi come noi, il festival popolare annuale dell’università di Chicago era il migliore del paese. Mi ricordo ancora le feste dopo i concerti negli appartamenti dei miei amici — centinaia di persone da tutte le parti eed anche sulle scale, che suonavano da mezzanotte fino all’alba, e poi, dopo alcune ore di sonno, che si precipitavano verso la città universitaria per i concerti ed i seminari del giorno seguente. Tenuto conto della dimensione più modesta di Shimer, non ce la siamo cavata male. Durante i due anni in cui fui presidente del club di musica folk, riuscii ad organizzare i concerti di Dock Boggs, Son House, Sleepy John Estes e Big Joe Williams, oltre ai New Lost City Ramblers, primo dei gruppi moderni a riprendere la vecchia musica tradizionale ed i cui concerti annuali a Shimer erano diventati un’istituzione. Con J.R., feci una spedizione sul posto, facendo autostop da St. Louis a Memphis per registrare Gus Cannon e Will Shade, gli ultimi due membri delle grandi jug bands degli anni 20.

Credo che la vera educazione sia generalmente l’auto-educazione, l’educazione di sé da sé, ed ho una misera opinione della maggior parte delle istituzioni scolastiche. Ma vorrei dire che lungi dall’interferire con la mia come avrebbero fatto la maggior parte delle scuole, Shimer l’ha favorita per diversi aspetti. Così, uno dei miei ultimi corsi mi ha fatto conoscere due degli autori che mi hanno influenzato di più. Esaminavamo varie filosofie (Kierkegaard, Buber, Camus, etc.). Per me, Io e Tu di Buber superava tutti gli altri libri. Martin Buber era un vero sapiente, uno dei rari pensatori religiosi occidentali che posso sopportare senza nausea. Durante una delle nostre discussioni, un compagno di studi prese Bird in the Bush di Kenneth Rexroth per leggere alcuni passaggi del suo saggio su Buber. Lo presi in prestito immediatamente, lo divorai, e non fui mai più lo stesso a partire da quel momento.

Nel 1965, quando conseguii il mio diploma a Shimer, non c’era nessuna incertezza sulla mia prossima destinazione. Tutto ciò che avevo sentito sulla Bay Area di San Francisco mi sembrava formidabile, dalla rinascita della poesia degli anni 50 fino al recente movimento per la libertà di parola (Free Speech Movement) all’università della California a Berkeley. In aggiunta, il mio amico Sam, ora con moglie e bambino, già vi si era trasferito per gli studi di secondo livello in poesia. Uno dei suoi professori non era altri che Gary Snyder, ritornato recentemente in America dopo molti anni d’iniziazione Zen in Giappone; ed in autunno contava di seguire un altro corso di Kenneth Rexroth! Dopo avere lavorato l’estate in un’acciaieria a East Chicago, mi trasferii a Berkeley. Vi sono rimasto da allora.


Berkeley negli anni 60

Era il momento più meraviglioso per arrivarci. Si sentivano ancora le ripercussioni vivificanti del Free Speech Movement. C’erano discussioni animate nella città universitaria, nelle strade via, nei caffè, ovunque — e non soltanto fra gli hippies ed i radiicali. Moderati ed anche giovani conservatori, consapevoli che tutto era stato messo in questione, si lasciavano trascinare in dibattiti su tutti gli aspetti della vita.

Durante il primo anno mi iscrissi agli studi orientalisti di secondo livello all’American Academy of Asian Studies, piccola scuola di San Francisco che ora non esiste più. Ma più spesso me la spassavo con Sam. Con la sua mediazione mi sono mescolato al milieu molto vivo dei poeti della Bay Area, incontrando molti giovani poeti e assistendo a molte letture pubbliche con alcuni dei personaggi più significativi della generazione precedente — Rexroth, Snyder, William Everson, Robert Duncan, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, Philip Whalen, Lew Welch. Benché non abbia scritto molto, mi immergevo nella poesia. Con Sam, leggevamo a voce alta Whitman, Kenneth Patchen o William Carlos Williams, a volte su una base di musica jazz, o improvvisavamo delle poesie a catena (dove molte persone scrivono in alternanza) mentre attraversavamo in automobile il ponte di San Francisco, quando lo accompagnavo al corso serale di Lew Welch ed al “corso” di discussioni libere animato da Rexroth al San Francisco State College.

Mi piaceva molto Rexroth, ma mi sono appassionato in un primo momento a Welch. Era più giovane, condivideva il nostro senso dello humour zanni ed i nostri entusiasmi giovanili per gli psichedelici e la nuova musica rock. Mi ricordo soprattutto della sua insistenza sulla parola giusta. Credendo che i poeti abbiano una vocazione sciamanica ad esprimere le realtà essenziali del modo più preciso ed accurato, denunciava incessantemente qualsiasi “imbroglio” nella poesia, ogni espressione trascurata, sentimentalista o “inesatta”.

Rexroth, benché anch’egli vedesse i nostri entusiasmi abbastanza di buon occhio, era più distaccato ed ironico. Derideva gli psichedelici, ad esempio. Pensavo inizialmente che non sapesse di cosa parlava; ma leggendo alcune delle sue poesie mistiche, mi accorsi che conosceva a fondo queste esperienze, avesse o no impiegato dei mezzi chimici per arrivarci. A poco a poco giunsi ad apprezzare la sua saggezza e la sua magnanimità sottili e discrete.

Durante i miei primi due anni a Berkeley feci una dozzina di trip psichedelici con Sam e altri amici. Generalmente eravamo in tre o quattro, riuniti in qualche posto tranquillo al riparo da interventi esterni, eravamo accompagnati preferibilmente da un non partecipante esperto che avrebbe potuto occuparsi di ogni commissione necessaria. Generalmente ascoltavamo semplicemente della musica, lasciando che l’avvio di un raga indiano ci riportasse all’inizio eterno dell’universo, o che le note di un pezzo per clavicembalo di Bach ci passassero attraverso come una pioggia di gioielli. A volte entravamo in una zona d’umore in cui il senso della santità universale era inseparabile dalla sensazione della fondamentale follia buffonesca del tutto; ed il giorno dopo avevamo ancora le guance doloranti a causa degli orgasmi multipli di riso. A volte andavamo nei boschi: mi ricordo due trip specialmente affascinanti alla psilocibina in una piccola capanna di un cañon vicino — nella reazione euforica mi venne quasi la voglia di fondare un culto per l’adorazione della natura. Gli psichedelici erano per me già sufficientemente sconvolgenti senza doverci aggiungere il rumore e la confusione delle grandi folle, ma feci un’eccezione per uno dei rari concerti di Bob Dylan a Berkeley. Un’altra volta con Sam prendemmo LSD prima di andare ad una delle prime manifestazioni contro la guerra del Vietnam, nell’ottobre 1965. Sapevamo certamente che non sarebbe stato l’ideale per un trip tranquillo, ma pensavamo che avrebbe potuto essere interessante vedere come le due cose si sarebbero combinate. Non troppo male. I discorsi di alcuni politicanti straight mi sembravano abbastanza fastidiosi, ma mi piaceva la sensazione di essere parte di una comunità impegnata.

Nell’autunno del 1966 lasciai la scuola. C’erano tante altre cose più appassionanti! La controcultura hip, che era emersa in superficie l’anno precedente, si diffondeva con la velocità del fuoco. Il quartiere di Haight-Ashbury straripava nelle strade in una festa quasi permanente. Migliaia e migliaia di giovani venivano qui a vedere ciò che succedeva, compresi decine di miei amici di Shimer, di Chicago e del Missouri. La mia piccola casa (due stanze di 3 metri per 3, una cucina ed un bagno, per 35 dollari al mese) era una tappa, alloggiando a volte fino a sette, otto persone nello stesso momento. Ora che sono abituato ad una vita isolata e più tranquilla, ho difficoltà ad immaginare come potevo sopportarlo. Ma in quell’epoca eravamo tutti giovani, condividevamo gli stessi entusiasmi, e quando non andavamo ai concerti, quando non facevamo un salto a Telegraph Avenue, a Haight-Ashbury, a Chinatown o al Golden Gate Park, quando non andavamo in campagna a fare camping, eravamo contenti di restare a casa mia leggendo, chiaccherando, improvvisndo, ascoltando dischi e facendo lievitare il pane delizioso che facevamo tutti i giorni, senza preoccuparci che non ci fosse posto per mettere i nostri sacchi a pelo. Certamente il fatto che eravamo stonati per l’erba quasi in modo permanente favoriva l’armonia generale.

I miei genitori mi mantennero finché frequentavo la scuola, ma dal momento in cui l’abbandonai dovetti cavarmela da solo. Come tanti altri negli anni 60, sono sopravvissuto con quasi niente, usando dei buoni di prodotti alimentari per i poveri, condividendo un affitto economico con molte persone, vendendo giornali underground, facendo piccoli lavori di tanto in tanto. In pochi minuti potevo arrivare dovunque in autostop a Berkeley o nella baia di San Francisco, ed ero spesso conosciuto dal conducente che mi offriva dell’erba. Se necessario potevo facilmente mendicare il prezzo di un pasto o di un concerto.

Dopo un anno di questo stile di vita piacevole ma precario, lavorai come postino per sei mesi; quindi lasciai questo lavoro e vissi delle mie economie nei due anni successivi. Quando il denaro cominciò ad esaurirsi scoprii un circolo di poker. Ed il centinaio di dollari che vi guadagnavo tutti i mesi, oltre ai guadagni di un lavoro di un giorno alla settimana come autista di taxi per una società cooperativa hip, mi permise di andare avanti per qualche altro anno.

Se gli psichedelici erano il cuore della controcultura, la sua espressione più visibile, o piuttosto più udibile, era ovviamente la nuova musica rock. Quando la musica sempre più sofisticata dei Beatles e degli altri gruppi incontrò le parole sempre più sofisticate di Bob Dylan, che portava la musica popolare ben oltre le canzoni di protesta e gli schemi rigidi delle forme tradizionali, abbiamo avuto infine la nostra musica popolare. Mentre Dylan, i Beatles e i Rolling Stones diventavano più apertamente psichedelici, i primi gruppi totalmente psichedelici si sviluppavano nella Bay Area. Ben prima che avessero registrato dei dischi, potevamo ascoltare i Grateful Dead, Country Joe and the Fish, Big Brother and the Holding Company e decine di altri gruppi appassionanti quasi in qualsiasi momento, al Fillmore, all’Avalon o gratuitamente nei parchi. Quando riuscirono finalmente a farsi registrare, i loro dischi erano lontani dal restituire l’esperienza di questi concerti in pubblico, parte integrale di una controcultura che era al suo massimo. Questi primi concerti, Trips Festivals, Acid Tests e Be-Ins, per quanto triti e ritriti questi termini possano apparire ora, comprendevano molta improvvisazione e interazione, e non soltanto sulla scena. La musica e i light-shows erano ovviamente subordinate ai trip dell’audience, e piuttosto che degli spettacoli, erano l’accompagnamento di una celebrazione. Se c’erano alcune persone famose sul palco (Leary, Ginsberg, Kesey), non erano star inaccessibili; sapevamo che erano sconvolti quanto noi, compagni di un viaggio di cui nessuno poteva predire la destinazione, ma che era già fantastico.

E questi grandi raduni pubblici erano soltanto la parte emersa dell’iceberg. Le esperienze più significative erano piuttosto personali ed interpersonali. La controcultura aveva molta più sostanza intellettuale di quel che pensavano gli osservatori superficiali. Certamente c’erano i flower children (hippies stereotipati) ingenui e passivi, soprattutto nella seconda ondata di adolescenti, che adottavano gli ornamenti esterni di uno stile di vita hip già esistente senza avere dovuto fare nessuna esperienza indipendente; ma numerosi “hips” avevano più senso critico, vivevano esperienze più profonde e diverse da quello che si crede generalmente, e si dedicavano ad una grande varietà di progetti creativi e radicali.

Qualcuno sarà forse sorpreso del contrasto tra la critica caustica della controcultura alla quale mi sono dedicato in alcuni miei vecchi scritti e l’immagine più favorevole che ne presento qui. È il contesto che è cambiato, non le mie opinioni. All’inizio degli anni 70, quando tutti erano ancora coscienti degli aspetti radicali della controcultura, pensavo che occorresse sfidare la sua autocompiacenza, segnalare i suoi limiti e le sue illusioni. Ora che gli aspetti radicali sono stati praticamente dimenticati, mi sembra molto così importante ricordare il suo lato fantastico e liberatore. Accanto a tutta la pubblicità spettacolare, milioni di persone procedevano a cambiamenti radicali nella loro vita, consegnandosi a sperimentazioni audaci e scandalose che non avrebbero affatto pensato di fare alcuni anni prima.

Non nego che la controcultura comprendesse molta passività e stupidità. Voglio soltanto sottolineare che vedevamo — e fino ad un certo punto la vivevamo già — una trasformazione fondamentale di tutti gli aspetti della vita. Sapevamo fino a quale punto gli psichedelici avevano cambiato profondamente il nostro stato d’animo. All’inizio degli anni 60 c’erano soltanto alcune migliaia di persone che ne avevano fatto l’esperienza; cinque anni più tardi la cifra aveva superato un milione. Chi avrebbe potuto dire che questa tendenza non sarebbe continuata, e non avrebbe scardinato finalmente l’intero sistema?

Finché è durata, la controcultura era notevolmente benevola. Trovavo del tutto naturale fare autostop con non importa chi, offrire un joint a sconosciuti, o invitarli a dormire a casa mia se erano appena arrivati in città. E in quell’epoca di questa fiducia non si abusava quasi mai. È vero che l’età d’oro di Haight-Ashbury non è durata a lungo. Le cose iniziarono a peggiorare verso il 1967, quando la pubblicità di Summer of Love [Estate d’amore] attirò un afflusso enorme di giovani che erano meno esperti e più vulnerabili, pronti a farsi sfruttare dal flusso parallelo di truffatori e di spacciatori. Ma altrove la controcultura continuò a fiorire per molti anni ancora.

Da parte mia, mi interessavo ad esperienze che “allargavano lo spirito” ed i brividi d’evasione che intorpidivano soltanto non mi seducevano affatto. La maggior parte della gente che frequentavo pensava lo stesso. Oltre ad una birra di tanto in tanto non bevevamo affatto alcool, e ci era difficile immaginare soltanto che si potessero preferire gli effetti grezzi e spesso insopportabili dell’alcool agli effetti estetici e benigni dell’erba, a meno che uno non fosse estremamente represso. Quanto alle droghe dure, non ne avevamo quasi mai sentito parlare, con la notevole eccezione delle anfetamine. In quantità modesta l’effetto dello speed non è molto diverso da quello del caffè in grande quantità, e la maggior parte di noi ne prendeva di tanto in tanto per rimanere sveglio di notte per qualche compito scolastico, o per attraversare il paese in automobile senza fermarsi. Ma non ci vuole molto perché diventino pericolosi. Finirono per uccidere Sam.

Sam aveva iniziato a prendere molto speed nel 1966, e nel 1967 era sempre più maniaco e paranoico. Questa paranoia si esprimeva con la professione del culto della terra cava, secondo il quale l’interno della terra era abitato da qualche specie di esseri misteriosi, e le autorità costituite occultavano questa informazione al grande pubblico (come nel culto abbastanza simile dei dischi volanti). Appena veniva menzionata la parola “underground”, per esempio, Sam faceva un cenno d’intesa con il capo. In realtà, quasi tutto, un verso poetico o una frase pubblicitaria, poteva, con dei giochi di parole, essere interpretato da lui come un segno che l’autore fosse uno di quelli che era al corrente della terra cava. Una delle esperienze più penose della mia vita fu di vedere il mio migliore amico diventare a poco a poco sempre più demente, mentre i miei sforzi per riportarlo alla ragione non avevano il minimo effetto. Una volta, se la svignò da casa, nudo ed in mezzo alla notte, e corremmo con sua moglie ovunque nei dintorni per ore prima di trovarlo. Un’altra volta è stato raccolto mentre faceva autostop in autostrada in uno stato così delirante che un poliziotto della stradale lo condusse all’ospedale psichiatrico di Napa. Sua moglie lo riportò finalmente nel Missouri.

Durante i due anni successivi il suo stato variava considerevolmente. A volte la sua esuberanza ed il suo buon umore facevano pensare che le sue divagazioni verbali fossero soltanto delle furbe improvvisazioni poetiche che lui stesso non prendeva sul serio. Altre volte affondava in depressioni gravi ed era ospedalizzato. L’ultima volta che lo vidi, sembrava calmo ma debilitato (probabilmente per i tranquillanti); non somigliava più alla persona che conoscevo da sempre. Quindici giorni più tardi mi telefonarono per dirmi che si era impiccato. Aveva 27 anni.

Rexroth ha spesso osservato che una quantità sorprendentemente elevata di poeti americani del XX secolo si è suicidata. È da supporre che i loro sforzi creativi li avessero portati a diventare insopportabilmente sensibili alla bruttezza della società, oltre ad averli esposti ad estreme frustrazioni e disillusioni nella loro vita personale. Il fatto è che l’idea rimbaudiana di cercare visioni per mezzo di uno “sregolamento sistematico di tutti i sensi” ha spesso ispirato comportamenti semplicemente idioti ed autodistruttivi. Quali che fossero i fattori sociali o personali che poterono contribuire alla pazzia di Sam, la causa immediata era certamente la grande quantità di speed che prendeva.

Può darsi che anche gli psichedelici abbiano giocato un ruolo, ma ne dubito. Nonostante le storie di gente che perde la ragione durante un trip, delle quali si è fatta una pubblicità esagerata, milioni di persone ne hanno presi durante gli anni 60 senza subire il minimo danno. Per non perdere il senso delle proporzioni, occorre ricordare che il numero di morti che si possono attribuire agli psichedelici nell’intero decennio è inferiore a quello dei morti dovuti all’alcool o al tabacco in un solo giorno. In alcuni casi gli psichedelici hanno certamente portato in superficie problemi mentali latenti, ma probabilmente nel migliore più spesso che nel peggiore. Ed ho la sensazione che molte più persone sono state salvate della pazzia grazie agli psichedelici, nella misura in cui l’esperienza le aveva aperte a prospettive più ampie e le aveva rese coscienti di altre possibilità oltre quella della cieca accettazione dei valori folli del mondo convenzionale.

In ogni caso, sono persuaso che gli psichedelici mi furono salutari. Oltre a un solo trip realmente infernale (sotto DMT), furono quasi tutti meravigliosi e li annoverp fra le esperienze più preziose della mia vita. Se ho cessato di prenderli nel 1967, è perché ero giunto a rendermi conto che i loro effetti salutari erano irregolari e non duravano. Vi danno soltanto una visione momentanea, una suggestione di ciò che è là. Ecco perché un certo numero di noi finì per avvicinare pratiche di meditazione orientali, per esplorare tali vie più sistematicamente e imparare ad integrarle più durevolmente nella nostra vita quotidiana.

Il Buddhismo Zen continuava ad attirarmi. Avevo già scoperto il Centro Zen di San Francisco, dove andavo di tanto in tanto per fare meditazione o per sentire i discorsi di Shunryu Suzuki, maestro Zen piccolo e gentile. Quando una filiale di questa scuola aprì a Berkeley nel 1967, iniziai ad andarci un po’ più regolarmente. Ma non continuai a lungo, in parte perché avevo alcuni dubbi sulle forme religiose tradizionali, ma soprattutto perché la pratica esigeva che ci si alzasse alle quattro di mattina, cosa che era difficile da conciliare con il mio stile di vita dell’epoca. Ero preso nello stesso tempo da così tante passioni diverse che mi è difficile raccontarle cronologicamente.

Una delle mie passioni era il cinema. All’inizio del 1968, fui improvvisamente la meravigliato di questo genere artistico mi afferrò, e per due anni ne fui preso. Ho visto quasi mille film, cioè quasi tutti quelli che uscirono nella Bay Area e che avevano qualche interesse, tra cui otto o dieci alla settimana al Telegraph Reportory Cinema che avevo convinto a concedermi l’ingresso libero permanente in cambio della distribuzione dei loro calendari pubblicitari, e ci tornavo spesso per rivedere per la seconda o la terza volta i film che preferivo di più. Le pellicole sperimentali di Stan Brakhage mi diedero l’idea di realizzare personalmente alcune piccole esperienze con una macchina fotografica 8mm, ma essenzialmente ero soltanto uno spettatore. I miei favoriti erano i primi europei classici — Carl Dreyer, i film muti tedeschi e russi, le pellicole francesi degli anni 30 (Pagnol, Vigo, Renoir, Carné) — e alcune pellicole giapponesi del dopoguerra. Oltre ai vecchi comici (Chaplin, Keaton, Fields, i fratelli Marx, Laurel e Hardy), che compensavano in gran parte i loro aspetti deteriori con quei momenti sublimi di ilarità poetica che talvolta raggiungevano, la maggior parte dei film americani non mi soddisfaceva molto. Hollywood ha sempre reso volgare tutto ciò che ha toccato, indipendentemente dalla qualità degli attori, degli autori o delle opere letterarie di cui le sue pellicole presumono di essere tratte; ma prima che la sua influenza sia riuscita a dominare tutto il pianeta, alcune delle industrie cinematografiche straniere tolleravano ancora alcuni sforzi creativi.

Dopo avere visto la maggior parte dei classici, oltre ad un campione abbastanza grande degli stili moderni, finii per stancarmi. Ho visto pochissimi film dopo il 1970, e ne sono quasi sempre rimasto deluso. Quasi tutti, compresi i cosiddetti capolavori sofisticati, sono concepiti fin troppo ovviamente soltanto per un pubblico di illetterati con problemi emotivi. Praticamente il solo cinema recente per il quale abbia trovato un po’ di interesse è quello di Alain Tanner. Ci sono senza dubbio alcune altre opere di qualche merito, ma occorre ingurgitare troppi rifiuti per trovarle. Preferisco quasi sempre leggere un buon libro.


Kenneth Rexroth

I libri più interessanti che lessi in quel periodo erano quelli di Rexroth o degli altri autori che mi fece conoscere. Mi piacque fin dall’inizio ancora di più quando lo incontrai per la prima volta; ma soltanto gradualmente, diventando un po’ più maturo, sono riuscito ad apprezzarlo per il suo giusto valore, al punto di diventare il mio autore preferito ed il mio mentore, eclissando i miei eroi precedenti, come Henry Miller, Alan Watts, Allen Ginsberg, Lew Welch, e finalmente anche Martin Buber e Gary Snyder.

Allo stesso tempo mistico e radicale, campagnolo ed urbano, Rexroth avevano una larghezza di veduta che non ho mai più ritrovato in nessun altro prima o dopo di lui. La filosofia orientale, i canti degli indiani d’America, l’opera cinese, la teologia medioevale, l’arte d’avanguardia, le lingue classiche, lo slang underground, lo yoga tantrico, le comunità utopistiche, la storia naturale, il jazz, la scienza, l’architettura, l’alpinismo — sembrava sapere molte cose interessanti su quasi tutti gli argomenti, e come si accordavano tra loro. Il solo fatto di seguire le sue proposte di lettura (soprattutto nei brevi saggi così sorprendentemente vigorosi dei Classics Revisited) era in sé un vero insegnamento di cultura generale. Oltre alle nuove prospettive che mi aprì su Omero, Lao Tse, Blake, Baudelaire, D.H. Lawrence ed Henry Miller, mi fece conoscere una grande varietà di altri capolavori che non avrei forse mai scoperto altrimenti: il diario modesto e meditativo del quacchero antischiavista John Woolman; l’autobiografia immodesta ma impegnativa di Restif de la Bretonne (una specie di Henry Miller ultrasentimentale francese del XVIII secolo); la magnanimità sottile di Parade’s End di Ford Madox Ford; la narrazione dura della Nave morta di B. Traven, Kalevala, affascinante epopea popolare finnica; Mister Dooley di Finley Peter Dunne, barman irlandese di Chicago della fine del secolo i cui monologhi riflettono un’esperienza del mondo ricca come quella di Twain, e che trovo anche più divertente...

Rilessi due saggi di Rexroth tante volte che finii per conoscerli quasi a memoria. Il primo, The Hasidism of Martin Buber, presentando un misticismo la cui espressione ultima si trova nel dialogo e nella comunione, metteva in dubbio le tendenze controculturali che vedevano il misticismo soprattutto sul piano dell’esperienza individuale minimizzando gli aspetti sociali ed etici della vita. Il secondo, The Chinese Classic Novel, mi iniziò alla nozione di magnanimità in Rexroth, che ritengo il tema centrale della sua opera. Questa nozione risale all’ideale aristotelico dell’uomo dalla “grande anima” (e questo è in effetti il senso letterale di magnanimità), ma Rexroth lo arricchisce collegandolo all’ideale cinese tradizionale del saggio dal “cuore umano”. L’opposizione stabilita da Rexroth tra la magnanimità e le forme diverse di “autocompiacenza” era per me una rivelazione. Sgonfiava la “profondità” e la “sensibilità” esibite da tutta una gamma di autori che erano di moda all’epoca — Kierkegaard, Dostoijevski, Nietzsche, Proust, Joyce, Pound, i surrealisti, gli esistenzialisti, i beats... L’elenco potrebbe essere proseguito quasi indefinitamente: una volta che comprendete la prospettiva di Rexroth, è difficile trovare un autore moderno la cui autocompiacenza non salti agli occhi.

Come sempre in Rexroth, quella che potrebbe sembrare soltanto una discussione estetica è in realtà un modo di parlare dei diversi modi di affrontare la vita. La distinzione tra la magnanimità e l’autocompiacenza diventò una delle mie pietre di paragone. Un autobiografo può difficilmente pretendere di essere indenne da qualsiasi autocompiacenza; ma se pensate che io abbia una certa autocompiacenza oggi, immaginate cosa sarebbe accaduto senza l’influenza moderatrice di Rexroth!

Dopo aver abbandonato i miei studi, cosa che mi ha fatto perdere il rinvio alla leva, ho evitato la coscrizione per due anni con una lettera dello psicanalista al quale i miei genitori mi avevano inviato, secondo la quale non avevo la stoffa per essere un buon soldato a causa del mio “risentimento estremo verso l’autorità”. Tuttavia, alla fine degli anni 60 l’esercito aveva una necessità sempre più pressante di arruolare gente per condurre la guerra al Vietnam, e questo tipo di scuse non bastava più. Quando mi presentai alla commissione di leva a Oakland, lo psicologo che mi esaminava non gettò che un’occhiata alla lettera, poi, con mio grande orrore, mi indicò come abile al servizio.

Non avevo alcuna intenzione di entrare nell’esercito, ma non avevo molta voglia neppure di trovarmi in prigione o di subire tutte le traversie dell’obiezione di coscienza. È se necessario sarei andato probabilmente in Canada, ma quello che mi infastidiva di più era di dover abbandonare tutto e di lasciare la Bay Area. Giurai a me stesso di non uscire dall’edificio prima di aver risolto la questione una volta per tutte.

Pensai bene di lanciare una sedia attraverso la finestra, ma non volevo trovarmi con la camicia di forza. Decisi di concentrarmi piuttosto sullo psicologo che mi aveva dichiarato abile. Preparandomi per il ruolo drammatico più determinante della mia vita, feci irruzione nel posto in cui esaminava qualcun altro, urlando: “Specie di coglione, animale, tu pensi di capirmi, ascolta, quando sarò nell’esercito, aspetta che abbia un fucile in mano, pensi che non sparerò al primo fottuto ufficiale che mi darà un ordine, ah ah, e quando l’avrò fatto, vorrei vedere la tua faccia quando i tuoi capi ti chiederanno come hai potuto dichiararmi abile, ah ah...” (tutto ciò era accentuato da smorfie, da tics e da grida penetranti infantili, in modo che avessi l’aria di un bambino in una crisi di collera). Quindi ho sbattuto la porta e mi sono seduto sulla soglia.

Quando uscì, lo seguii in silenzio, determinato a non lasciarlo più. Va in un altro ufficio ed esce presto con un ufficiale, che si avvicina e dice: “Cos’è che pensi di fare, minacciando il medico?” Mi lancio in un’altra diatriba. L’ufficiale mi dice di entrare nel suo ufficio. Dopo qualche altro minuto ancora della mia esibizione, mi dice che non sarò preso nell’esercito. Ma non poteva finire lì, voleva salvare la faccia: “Questo è probabilmente quello che volevate sentirvi dire. Ma voglio dirvi ancora qualcosa. Ho visto molta gente in questo lavoro. Alcuni erano obiettori di coscienza. Non ero d’accordo con loro, ma potevo rispettarli. Ma voi! A giudicare dal vostro comportamento violento e rivoltante, l’umanità non ha fatto alcun progresso dagli uomini delle caverne! Non meritate di stare nell’esercito!”

Trattenendomi dal sorridere, sono rimasto calmo, lanciandogli sguardi cattivi e stringendo il bordo della scrivania come se rischiassi in qualsiasi momento di essere preso di un spasmo, mentre riempiva e firmava il formulario. Quindi lo presi senza una parola, uscii con un passo pesante e rumoroso, riportai il formulario all’ufficio competente, uscii dall’edificio, svoltai l’angolo della via... e continuai per la strada saltellando!


Come diventai anarchico

Benché fossi andato ad alcune manifestazioni per i diritti civili o contro la guerra durante i miei due primi anni a Berkeley, soltanto alla fine del 1967 l’intensificazione della guerra in Vietnam mi indusse ad impegnarmi seriamente nella politica della Nuova Sinistra. Il mio primo gesto fu quello di aderire al Peace and Freedom Party, che si proponeva di sostenere la candidatura di Martin Luther King e Benjamin Spock alle elezioni presidenziali del 1968. La maggior parte dei 100.000 membri californiani del PFP non aveva probabilmente maggiore esperienza politica di me, ma si iscrissero semplicemente per assicurarsi che ci fosse un candidato contro la guerra alle elezioni. Ma benché il PFP fosse soprattutto un partito elettorale, compiva uno sforzo per incoraggiare una partecipazione che andasse al di là del voto. Andai a molte riunioni di quartiere del PFP ed assistetti ai tre giorni della convenzione nel marzo 1968.

C’era molta buona volontà ed entusiasmo fra i delegati, ma fu in quell’occasione che fui testimone per la prima volta di manovre politiche. Completamente aperto ed eclettico, il PFP attirava naturalmente la maggior parte delle organizzazioni gauchistes, ciascuna delle quali intrigava per promuovere la sua linea o i suoi candidati. Alcuni dei politicanti mi sembravano abbastanza fastidiosi, ma in generale ammiravano coloro che avevano partecipato alle lotte per i diritti civili o al FSM, e volentieri mi rimettevo al loro punto di vista più sperimentato e probabilmente meglio informato. Benché possa pretendere di aver partecipato fin dall’inizio alla controcultura, ed in modo relativamente indipendente, nel movimento politico, non ero che un sostenitore passivo, ordinario e tardivo.

Come diventavo più “attivo” nel PFP (ma mai al di là di ruoli subalterni, come partecipare alle manifestazioni, riempire buste, distribuire volantini), fui gradualmente “radicalizzato” dall’influenza dei politicanti più esperti, soprattutto dalle Pantere Nere. Ripensandoci, è imbarazzante riconoscere con quale facilità sono stato ingannato da una manipolazione così grezza, attraverso la quale un pugno di individui si è autoproclamato il solo portavoce autentico della “comunità nera”, rivendicando il diritto di veto, e in pratica la sovranità effettiva sul PFP e su qualunque altro gruppo con il quale accondiscendeva a formare delle “coalizioni”. Ma erano evidentemente coraggiosi, ed a differenza delle tendenze separatiste, erano almeno disposti a collaborare con i bianchi. La maggior parte di noi aveva ingenuamente creduto alla vecchia truffa: “Sono neri, incarcerati, battuti, uccisi; dato che noi non siamo in queste condizioni, non abbiamo alcun diritto di criticarli.” Quasi nessuno, neppure i cosiddetti gruppi antiautoritari come Diggers, Motherfuckers o Yippees, sollevava alcuna obiezione seria a questo “doppio peso e doppia misura” razzista, che, tra l’altro, costringeva tutti gli altri neri all’alternativa di sostenere i loro sedicenti “servi supremi” o a tacere.

In questo periodo le salutari tendenze “democratico-partecipative” della prima Nuova Sinistra erano soffocate dall’intimidazione, dalla spettacolarizzazione e dal delirio ideologico. Appelli a favore del terrorismo o della “lotta armata” si ripetevano in molti giornali underground. Gli attivisti che credevano che ogni questione teorica fosse soltanto una stronzata furono presi allo sprovvista quando la SDS fu presa in mano da sette di stupidità asinina che discutevano tra loro sulla questione di sapere quale combinazione di regimi staliniani dovevano sostenere (la Cina, Cuba, il Vietnam, l’Albania, la Corea del Nord). La grande maggioranza di noi non aveva alcuna simpatia per lo stalinismo. Parlando solo di me stesso, anche se ero bambino, leggendo gli articoli sulla repressione della rivoluzione ungherese del 1956, avevo abbastanza buon senso per capire che lo stalinismo era della una pura stronzata. Ma nella nostra ignoranza della storia politica, era facile identificarci con degli eroi martirizzati come Che Guevara o i Vietcong, e tanto più quanto più erano esotici, non sapendo realmente quasi nulla di loro. Fissati in modo ossessivo e quasi esclusivo sullo spettacolo delle lotte terzomondiste, non eravamo consapevole delle vere sfide della società moderna. Certamente, uno degli scontri più duri a Berkeley cominciò come una “manifestazione di solidarietà” con la rivolta del maggio 1968 in Francia, ma non eravamo al corrente di ciò che avveniva là realmente — avevamo l’impressione confusa che si trattava di una sorta di “protesta contro de Gaulle” più o meno nello stile che conoscevamo.

Oggi il crollo del movimento viene spesso attribuito all’operazione COINTELPRO del FBI, che mise in opera la disinformazione per seminare sospetti tra diversi gruppi radicali, impiegando dei provocatori per screditarli, e delle macchinazioni contro alcuni individui. Ma non è meno vero che la struttura autoritaria delle Pantere e degli altri gruppi gerarchici si prestava a questo tipo d’operazione. Nell’insieme i provocatori avevano solo bisogno di incoraggiare delle tendenze ideologiche che erano già deliranti, o di attizzare rivalità che esistevano già.

Per me la goccia d’acqua che fece traboccare il vaso fu il congresso delle Pantere per un “fronte unito contro il fascismo” nel luglio 1969. Partecipai coscienziosamente ai tre giorni. Ma la sua orchestrazione militarista, l’adulazione frenetica degli eroi martiri, i canti scanditi, gli slogan pavloviani, le parole d’ordine meschine, le spacconerie sulla “linea corretta” e la “direzione corretta”, le menzogne e le manovre ciniche dei gruppi burocratici temporaneamente alleati, le minacce violente contro i gruppi rivali che non avevano accettato la linea attuale delle Pantere, il telegramma “fraterno” del Politburo nordcoreano, il ritratto incorniciato di Stalin sulla parete dell’ufficio delle Pantere — tutto questo finì per avvilirmi, e mi indusse a cercare una prospettiva che si accordasse meglio con le mie sensazioni.

Credevo di sapere dove trovarla. Uno dei miei amici di Shimer che si era trasferito qui era anarchico, ed i suoi commenti disincantati sulle tendenze burocratiche del movimento mi salvarono da troppo facili entusiasmi. Andai da lui per prendere in prestito una borsa piena di testi anarchici — scritti classici di Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Emma Goldman, Alexander Berkman; opuscoli su Cronstadt, la rivoluzione spagnola, l’Ungheria del 1956, la Francia del 1968; e alcune riviste più recenti come Solidarity ed Anarchy (Londra), Anarchos (New York), Black and Red (Michigan)...

Fu una rivelazione. Avevo intuitivamente una certa simpatia per l’anarchismo, ma come la maggior parte della gente supponevo che non fosse realmente praticabile; che senza un governo tutto crollerebbe nel caos. I testi anarchici demolirono questo errore, rivelandomi le possibilità creatrici dell’auto-organizzazione popolare e mostrando come le società potrebbero funzionare molto bene — ed in alcune situazioni o per alcuni aspetti, hanno funzionato molto bene — senza strutture autoritarie. In questa prospettiva diventava facile vedere che le forme d’opposizione gerarchiche tendono a riprodurre la gerarchia dominante (l’evoluzione rapida del partito bolscevico in stalinismo ne è l’esempio più evidente) e che la dipendenza rispetto a qualsiasi capo, anche il più radicale, tende a rafforzare la passività della gente anziché incoraggiare la loro creatività e la loro autonomia.

Scoprii che “l’anarchismo” comprendeva una grande varietà di tendenze — individualiste, sindacaliste, collettiviste, pacifiste, terroristiche, riformiste, rivoluzionarie. Praticamente la sola cosa sulla quale la maggior parte degli anarchici era d’accordo era l’idea che occorre opporsi allo Stato ed incoraggiare l’iniziativa e la gestione popolari. Ma era almeno uno buon inizio. Ecco una prospettiva che potevo abbracciare con tutto il cuore, che spiegava i difetti attuali del movimento e dava un’indicazione generale sulla direzione nella quale occorreva andare. Per me, l’anarchismo conveniva perfettamente con l’idea di Buber e di Rexroth di una comunità interpersonale autentica, in opposizione alle comunità impersonali. Alcuni articoli recenti di Rexroth avevano segnalato il legame tra Kropotkin e l’ecologia. Rexroth e Snyder avevano fatto allusione ad una “grande cultura sotterranea” che comprende diverse correnti non autoritarie attraverso la storia, e avevano espresso la speranza che con la controcultura attuale queste tendenze potrebbero essere sul punto di prendere corpo in una comunità mondiale liberata. L’anarchismo sembrava essere l’elemento politico di tale movimento.

Ron Rothbart (un amico di Shimer che si era trasferito recentemente a Berkeley) rapidamente divennne un convertito entusiasta come me. Iniziavamo ad osservare il movimento in modo più critico e a prendere noi stessi alcune iniziative modeste, elogiando l’anarchismo presso i nostri amici, ordinando delle pubblicazioni per la diffusione locale, portando le bandiere nere alle manifestazioni. Dopo avere conosciuto altri anarchici locali con cui formammo un gruppo di discussione, progettando la ristampa di alcuni testi anarchici, e prevedendo l’apertura di una libreria a Berkeley. Il mio primo scritto “pubblico” fu un opuscolo diffuso ad alcune decine di amici e di conoscenti in cui provavo a far conoscere gli aspetti anarchici di Rexroth e Snyder.



Nota del traduttore: Il titolo originale del testo di Ken Knabb è “Confessions of a Mild-Mannered Enemy of the State”. Una traduzione che renda in italiano il significato di mild-mannered non è facile. Al lettore italiano può essere utile quanto ha scritto Ken Knabb al riguardo in una lettera inviata a chi scrive: In inglese “mild-mannered” ha una connotazione particolare (oltre a tutte le qualità che menzioni): Nel famoso programma televisivo “Superman”, degli anni ’50-’60, la descrizione di Superman all’inizio diceva sempre: “...and who, disguised as mild-mannered reporter Clark Kent...” Cioè, c’è almeno una connotazione di beneducato o affettato, e quindi una connotazione di persona comune, compita, raramente in collera, che non insulta mai nessuno... Una persona gentile, con un’aria dolce, e che non ha un atteggiamento forte o impressionante. Assolutamente non come Guy Debord che non era affatto mild-mannered in questo senso (anche se era senza dubbio abbastanza educato o caloroso in alcuni suoi rapporti personali). Piuttosto un qualcosa di ordinario. Il contrasto con “enemy of the state” è un po’ divertente, e lo è ancora di più se il lettore si ricorda che il vecchio “mild-mannered man” era in realtà Superman... Ma non è soltanto uno scherzo, la descrizione è giusta perché io sono relativamente “mild-mannered” — pratico la meditazione zen, metto in discussione alcuni aspetti “violenti” o “egotisti” dello stile situ, cerco di collegare la strategia rivoluzionaria con le situazioni ordinarie della vita quotidiana.


 

Parte 1 della versione italiana di Confessions of a Mild-Mannered Enemy of the State, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

No copyright.

Parte 2

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