BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

Confessioni di un
garbato nemico dello stato

 

Parte 3 (1977-1997

Viaggio in Giappone e a Hong Kong
L’Antologia dell’I.S.
La scalata
Ancora Rexroth
La pratica Zen
Letture, scritti, traduzioni, musica
Come mai ho scritto questo libro

 

 

 


 

Viaggio in Giappone e a Hong Kong

Rimasi in Giappone per due mesi. In un primo tempo a Fujinomiya, una tranquilla cittadina ai piedi del monte Fuji dove abitavano Tommy Haruki e la sua famiglia. Era così lontana dalle vie battute che alcuni bambini delle vicinanze non avevano mai visto uno straniero.

Dopo una o due settimane, ritornai a Tokio per incontrare alcuni giovani anarchici che stavano traducendo il mio testo The Society of Situationism [La società del situazionismo]. Era un lavoro interessante, ma a causa dell’assenza di attività situazionista in Giappone, c’erano naturalmente molte sfumature sull’ideologizzazione che non potevano cogliere, e dubito che la loro traduzione sia stata ben compresa.

È incontrai molti altri anarchici a Tokio, ma nell’insieme questo ambiente mi sembrò privo d’interesse. Giusto per vedere se potevo risvegliarli un po’, scrissi una lettera aperta e apertamente critica ad un gruppo (Open Letter to the Tokyo “Libertaire” Group [Lettera aperta al gruppo “Libertaire” di Tokio]), che Haruki tradusse e distribuì ai suoi contatti anarchici ovunque in Giappone. Il gruppo la ristampò con due risposte del tipo “Se non avete nulla di gradevole da dire, tacete”.

In novembre andai a Hong Kong per tre settimane per incontrare i “70”, un gruppo anarchico che diffondeva informazioni sul dissenso in Cina, in un’epoca in cui tali informazioni erano difficili da trovare e in cui molta gente si faceva ancora delle illusioni su Mao e sulla “rivoluzione culturale”. Pubblicai più tardi una critica del gruppo e delle sue pubblicazioni. Con mia grande sorpresa ed con mia grande delusione, questo testo non ricevette alcuna risposta pubblica dei 70, anche se pare che abbia causato dei dibattiti interni. “Benché alcuni compagni oltreoceano abbiano trattato con disdegno il tuo opuscolo A Radical Group in Hong Kong [Un gruppo radicale a Hong Kong], c’è un certo numero di persone qui (tra cui gente come me che non ti ha mai incontrato) che sono completamente d’accordo con le tue critiche ai 70 fin nei minimi dettagli” mi scrisse un corrispondente. Purtroppo, finì per allinearsi al dogmatismo stantio della Corrente Comunista Internazionale, il che non era un progresso. Il gruppo dei 70 si sciolse all’inizio degli anni 80.

Ritornato in Giappone, incontrai degli altri anarchici a Kyoto e ad Osaka. Collaborai con Haruki alla ristampa di una traduzione giapponese dell’opuscolo De la misère en milieu étudiant [Sulla miseria nell’ambiente studentesco] che avevamo trovato; e munito di numerosi dizionari, gustai quelle ultime conversazioni accompagnate da tazze di saké caldo, particolarmente piacevole allora che il freddo di dicembre iniziava a penetrare nelle case mal isolate. Quindi tornai a Berkeley.

Provavo sensazioni contradittorie rispetto al Giappone. Certamente, non mi piaceva il conformismo, né l’etica del lavoro, né la persistenza delle gerarchie e delle barriere sessiste. Bisogna usare delle forme grammaticali diverse a seconda che siate uomo o donna, o che parliate ad un superiore o ad un inferiore. Non potevo prendere queste cose seriamente. Ma apprezzavo alcuni aspetti della loro cultura: l’architettura e l’arredamento tradizionali; il comportamento modesto ed educato; la cucina deliziosa; la pulizia quasi fanatica — la pratica di togliere le scarpe prima di entrare in una casa mi è sembrata così pratica e comoda che l’ho adottata da allora. E nonostante la sua difficoltà, trovai la lingua affascinante. Ho continuato a studiarla a Berkeley, con l’idea che avrei potuto tornarci per starci per qualche tempo. Ma alla fine non l’ho mai fatto, soprattutto perché non ho sentito parlare di qualche nuovo sviluppo interessante in quel paese né di nuovi compagni da incontrare. Ho abbandonato gli studi dopo un anno, ed ora ho dimenticato quasi tutto. Ma mi è piaciuto finché è durato.

A parte lo studio del giapponese, passai la maggior parte del 1978 a fare il correttore di bozze. Per vent’anni me la sono cavata lavorando free-lance come correttore o come correttore- redattore. Non è un lavoro molto appassionante, ma mi lascia molto tempo libero. Avendo gusti abbastanza modesti e non dovendo provvedere alle necessità di una famiglia, sono riuscito a vivere in modo abbastanza confortevole per tutta la mia vita d’adulto, con redditi che non hanno mai superato la soglia ufficiale di povertà. I miei due unici eccessi, la scrittura ed i viaggi, sono eccessi solo apparentemente. Le vendite delle mie pubblicazioni hanno quasi coperto le spese di stampa — non conto le mie ore di “lavoro”, che sono generalmente state piacevoli — ed anche i miei viaggi all’estero sono stati relativamente poco costosi perché vado in generale soltanto dove ci sono degli amici che mi possono ospitare.

In autunno iniziai a seguire attentamente lo sviluppo della rivolta in Iran, leggendo i resoconti nella stampa e articoli generali sulla recente storia politica dell’Iran e del Medio Oriente. Nel marzo 1979 pubblicai il manifesto The Opening in Iran  [La breccia in Iran], di cui distribuii molte centinaia di copie ai gruppi di studenti radicali iraniani in America. Speravo che alcune copie, o almeno alcune delle idee, arrivassero in Iran, ma non so se ciò è mai accaduto. Alcuni iraniani che ho incontrato erano abbastanza simpatici, ma la maggior parte era troppo presa dalla dinamica degli eventi, e troppo attaccata all’Islam o ad una o ad un’altra variante del leninismo, per comprendere una prospettiva realmente radicale. Alcuni hanno anche minacciato di spaccarmi la faccia per aver denigrato Khomeiny. Il mio testo è stato criticato per aver sottovalutato la preponderanza dell’elemento religioso nella rivolta. Avevo supposto che la potenza e la natura reazionaria del movimento khomeinista fossero già abbastanza evidenti perché ci fosse la necessità di pronunciarsi a lungo sull’argomento. Del resto, benché la vittoria finale di Khomeiny sembrasse probabile, non pensavo che fosse decisa in anticipo. E di fatto, gli sono stati necessari molti mesi per consolidare realmente il suo potere. A parte la prima frase un po’ troppo entusiasta che ho aggiunto spinto da un impulso dell’ultimo minuto, il mio testo era semplicemente un tentativo di troncare le confusioni correnti e di distinguere le forze ed i fattori in gioco. Presentava delle possibilità, non delle probabilità né delle previsioni. Qualcuno mi ha scritto più tardi: “Ero in Iran poco dopo la rivoluzione. Ho fatto autostop dalla frontiera pakistana fino alla frontiera turca. Potrei fornire decine di esempi in cui la gente comune ha preso il potere. La vostra analisi della situazione in Iran e dei suoi sviluppi possibili è la sola cosa che abbia letto che abbia la minima rassomiglianza con la verità.” Non so nulla sull’affidabilità di questa persona, ma ogni frase del mio testo era basata su fonti documentate, la maggior parte delle quali non è più radicale di Le Monde o di Christian Science Monitor.

Tra parentesi, il Monitor è la sola pubblicazione d’attualità non alternativa che leggo regolarmente. Vi sono abbonato da quando lo scoprii facendo delle ricerche per il mio testo sull’Iran. Certamente, è lontano dall’essere radicale, ma lo trovo meno nauseabondo degli altri giornali americani, e nei limiti della sua prospettiva vagamente umanitaria e progressista (la sua prospettiva religiosa si impone soltanto di rado), contiene un maggior numero di informazioni internazionali e concede meno spazio alle ultime notizie sensazionaliste.

Nell’autunno 1979 andai in Europa per quattro mesi. Passai molte settimane visitando i miei contatti di Mannheim, Nantes, Bordeaux, Barcellona, Atene e Salonicco. Il resto del tempo rimasi a Parigi, soprattutto da Joël e Nadine, con cui ero di nuovo in rapporti eccellenti (mi avevano reso visita in California l’anno precedente). Vidi anche i Denevert qualche volta. Dopo la nostra rottura del 1977, avevano, anche loro, passato un brutto periodo che li aveva finalmente portati a rimettere in questione l’ostilità ed il delirio che aveva spesso accompagnato le rotture nell’ambiente situ, ed avevano cominciato a riconciliarsi con alcuni di quelli con cui avevano rotto. Ciò non voleva dire che si fossero rassegnati a riprendere relazioni superficiali e ordinarie. Un anno più tardi fecero circolare una serie di Lettres sur l’amitié [Lettere sull’amicizia] in cui discutevano delle loro esperienze recenti sul terreno delle relazioni politiche e personali e in cui si dichiaravano in “sciopero d’amicizia” per una durata illimitata. Fu l’ultima volta in cui ho avuto loro notizie. Quando ho provato a contattarli successivamente, erano partiti senza lasciare un indirizzo. (C’è qualcuno che sappia dove si trovino?) (Nota aggiunta in seguito: Dopo li ho ritrovati.)

A Parigi, redassi un volantino, a proposito di niente in particolare (prevedevo di diffonderlo a caso nella metropolitana, ed in altri luoghi). Per una ragione qualunque, non l’ho mai fatto stampare. Eccolo dunque per la prima volta, diciassette anni più tardi:


SPLEEN DI PARIGI

A Parigi più che ovunque altrove, specialmente dopo i situazionisti, tutto è stato detto ma pochi ne hanno tratto vantaggio. Poiché la teoria è in sé banale, può andare a vantaggio solo degli spiriti che non lo sono. I testi radicali diventano di routine come il lavoro ed il consumo che denunciano. Certamente occorre abolire lo Stato ed il lavoro salariato, liberare la nostra vita quotidiana, ecc. Ma si diventa disincantati. Diventa difficile pensare per sé. La rivoluzione è contenuta dalla sovraesposizione.
       Solo eccezionalmente le nostre lotte sono aperte e chiare. La maggior parte del tempo siamo impigliati da ciò che vogliamo combattere. facile, e confortante, biasimare i capitalisti, i burocrati o la polizia; ma è soltanto grazie alla complicità passiva delle “masse” che queste piccole minoranze hanno qualche potere. Non è tanto un “errore” dei sindacati o dei mass media se distorcono le lotte operaie — dopo tutto, è la loro funzione — quanto un errore degli operai che non sanno garantire la comunicazione delle loro esperienze e delle loro prospettive.
       Che il sistema ci sfrutti, ci faccia del male e ci tenga nell’ignoranza, è abbastanza brutto; ma il peggio, è che ci perverte, ci trasforma in creature meschine, mediocri, vili. Se ci presentano una sola grezza tentazione di auto-tradimento, siamo forse capaci di rifiutarla. Ma poco a poco mille compromessi corrodono la nostra resistenza. Diventiamo incapaci della minima sperimentazione, per il timore di indebolire le difese che abbiamo costruito per respingere la nostra vergogna. Anche quando arriviamo a considerare un’azione critica, esitiamo; immaginiamo innumerevoli obiezioni — abbiamo paura di sembrare stupidi o di avere torto, temiamo che la nostra idea non vada, o se va, che non voglia dire molto.
       Ipocrita lettore, la tua espressione disincantata non nasconde il fatto che conosci molto bene ciò che dico. Passi da un’ideologia a un’altra, e ciascuna contiene appena quella quantità di verità per riuscire a trattenerti, ma resta abbastanza frammentaria per impedirti di affrontare concretamente la totalità. Di disillusione in disillusione, finisci per non credere a nulla che non sia la natura illusoria del tutto. Spettatore cinico, come tutti gli altri ti vanti di essere “differente” dagli altri. Ti consoli disprezzando l’ingenuo, il provinciale, il cafone, la persona che crede ancora in Dio o nel suo lavoro — la cui sottomissione caricaturale è presentata in modo ripugnante precisamente per farti dimenticare la tua sottomissione. Dici a te stesso che tutto ciò che si applica alla maggior parte della gente, non sia valido per te; mentre la persona accanto a te pensa che ciò che è valido per te non si applichi a lei.
       Tu immagini vagamente che in un modo o in un altro la tua vita potrebbe migliorare. Hai qualche ragione reale per crederci? Andrai avanti così fino alla morte? Non hai un po’ di audacia, d’immaginazione?

Il dialogo deve preoccuparsi di eliminare le condizioni che eliminano il dialogo!

Risolviamo l’anacronistica “questione sociale” per poterci dedicare a problemi più interessanti!

La meschineria è sempre controrivoluzionaria!


L’Antologia dell’I.S.

Ritornato a Berkeley, cominciai il lavoro sulla Situationist International Anthology. Per anni ero stato frustrato dalla mancanza di traduzioni dei testi dell’I.S. La maggior parte di quelle che esistevano erano imprecise, e le meno cattive, poco numerose, erano spesso esaurite. Era dunque difficile, leggendo soltanto alcuni articoli dispersi, prendere conoscenza della prospettiva situazionista nell’insieme e spiegarsi il modo di cui si era sviluppata. E la sola raccolta generale, Leaving the Twentieth Century di Christopher Gray, era inadeguata per più aspetti. Avevo già pensato di fare io stesso delle traduzioni, ma la mia proposta del 1975 nel manifesto The Blind Men and the Elephant [I ciechi e l’elefante] non aveva interessato alcun editore, e l’idea di pubblicare una grande raccolta curata da me stesso mi sembrava opprimente. Inoltre, due editori commerciali avevano successivamente annunciato la loro intenzione di fare uscire il Trattato di Vaneigem, abbandonando in seguito il progetto, e ciò ritardò ancora la nostra impresa.

Infine, dopo altre voci di nuove traduzioni che si rivelarono anch’esse senza fondamento, conclusi che se volevo una raccolta accettabile, avrei dovuto farla io stesso. Benché la mia conoscenza del francese non fosse ancora completa all’epoca, comprendevo quasi perfettamente i testi situazionisti, ed potei usufruire della collaborazione di Joël e Nadine per chiarire tutto ciò che mi restava oscuro.

Quando il lavoro si trovò sufficientemente avanzato, inviai una presentazione ad una trentina di editori. Ma mi obiettarono che gli scritti situazionisti erano troppo difficili o troppo oscuri — pregiudizio corrente. Retrospettivamente, il loro rifiuto fu probabilmente positivo. Se fossi riuscito ad interessare un editore, avrei forse dovuto preoccuparmi della possibilità che volesse discutere la scelta sui testi o insistere per introdurre una prefazione redatta da una celebrità radicale, o aggiungere in quarta di copertina delle citazioni di critiche incompetenti, o ritardare l’edizione o lasciare il libro esaurirsi senza ristamparlo, ecc. Pubblicando il libro curato da me, ho potuto controllare tutto il progetto. Tra l’altro, ho potuto rinunciare a qualsiasi copyright, come faceva l’I.S., mantenere il prezzo a un livello ragionevole ed inviare una grande quantità di copie gratuite a carcerati o a compagni poveri in Europa orientale e nel Terzo Mondo.

La realizzazione richiese quasi due anni. Era poco prima dell’avvento delle edizioni a buon mercato. Oggi, avrei potuto risparmiare centinaia di ore di lavoro e migliaia di dollari sulla composizione, l’indicizzazione, il collage, ecc. ma poiché pensavo che questi testi rappresentassero il corpus della più importante critica sociale diel Novecento, ero felice di fare tutto ciò che era necessario per presentarli nel modo più accurato possibile.

Non credo che ci siano errori significativi nella mia traduzione, anche se avrei potuto rendere alcuni passaggi più chiaramente, come ho fatto nella nuova versione dell’articolo sulla sommossa di Watts che ho pubblicato recentemente. Alcuni hanno criticato la mia decisione di conservare le parole dérive e détournement nella versione inglese, ma non ho trovato alcuna traduzione soddisfacente. Per contro, penso ora che récupération si possa rendere più chiaramente con “cooptation”, nonostante le connotazioni leggermente differenti delle due parole.

Come accade con ogni antologia, alcuni lettori si trovarono in disaccordo sulla scelta degli articoli. Michel Prigent, che sembra non avermi mai perdonato di avere segnalato che le sue traduzioni (pubblicate sotto i nomi “Piranha” e “Chronos”) erano troppo letterali, mi ha accusato di aver fatto una selezione in funzione delle mie “prospettive ideologiche”. Ma oltre alla proposta implicita di includere uno o due testi che egli stesso aveva già tradotto, la sua sola proposta era di realizzare un’edizione inglese integrale di tutti i numeri della rivista francese. Spero che qualcuno lo farà un giorno questo lavoro, ma avrebbe triplicato il tempo ed il costo di un progetto che era già abbastanza pesante per me.

Altri critici hanno sostenuto che avevo occultato il primo periodo (più “culturale”) dell’I.S. Ammetto di aver dato maggior peso al periodo successivo più “politico”, senza il quale nessuno avrebbe mai sentito parlare dell’I.S. salvo alcuni specialisti dei movimenti d’avanguardia, ma le principali caratteristiche del primo periodo non possono affatto sfuggire al lettore dei primi dodici articoli del libro. Avrei probabilmente potuto includere degli estratti di Potlatch e altro materiale precedente alla nascita dell’I.S. se tali testi fossero stati disponibili all’epoca; ma se non mi sono preoccupato della storia dei “nashisti” e di altre tendenze artistiche, è perché pensavo che presentassero poco interesse e che non avessero molto a che fare con i contributi situazionisti più originali e più essenziali. Dopo la pubblicazione del libro, questi critici hanno avuto quindici anni di tempo per pubblicare i testi vitali che avrei nascosto. Finora, non hanno fatto uscire grandi cose.

Altri lettori avrebbero voluto più note per spiegare alcuni riferimenti oscuri. La presunta oscurità dei testi situazionisti è in realtà molto esagerata. La loro comprensione non esige generalmente più di una conoscenza minima di alcune opere fondamentali e di alcuni eventi storici importanti che tutti coloro che hanno una seria volontà di comprendere e di trasformare il mondo devono conoscere. Il contesto generalmente rende il significato abbastanza chiaro, anche se non si conosce questo o quell’ideologo europeo citato, come si possono apprendere molte cose leggondo Marx ed Engels senza sapere nulla sui filosofi e sugli economisti che hanno criticato.

Altri ancora avrebbero voluto che includessi alcune delle illustrazioni originali dell’I.S.. Le apprezzo molto come chiunque. Ma le migliori, e soprattutto i fumetti deturnati, sono state così spesso riprodotte ed imitate che rischiavano di distrarre l’attenzione dai testi e di rafforzare l’idea molto diffusa, ma falsa, che le pubblicazioni situazioniste consistessero in collages chiassosi concepiti per stupire la gente. Ho pensato che non avrebbe fatto male agli intossicati dalle immagini essere costretti a dirigere la loro attenzione su dei testi disadorni.

Ci furono anche, sicuramente, numerosi commenti sui testi stessi. In questi ultimi anni le pubblicazioni sull’I.S. sono diventate ancora più numerose che nell’immediato dopo maggio 1968, e l’I.S. è diventata più famosa e più affascinante che mai.

Un po’ di quest’aura è scesa su di me. Essendo generalmente impossibile riunire i vecchi membri dell’I.S., sono stato a volte considerato come il migliore portavoce situazionista, e mi hanno chiesto di fare letture pubbliche e sedute di firma in librerie, di accordare interviste, di fare discorsi o registrazioni su videotape, di contribuire a diverse pubblicazioni, di fornire informazioni per tesi universitarie, di partecipare a congressi radicali o a simposi universitari, di diventare “artista associato” in un istituto d’arte, ed anche di fornire materiali per un programma televisivo. Ho rifiutato tutte queste proposte.

Non si tratta di un principio rigido. Uno di questi giorni, se sono dell’umore per farlo e se mi lasciano sufficientemente libertà, potrei decidere di deturnare una di queste situazioni, come ha fatto Debord in un discorso in occasione di un congresso “sulla vita quotidiana” in cui critica, tra l’altro, i limiti ed i vicoli ciechi di tali congressi (cfr: I.S. n. 6, pp 20-27). Ma nell’insieme, credo che la gente si inganni se pensa che l’effetto sovversivo di questo tipo di pubblicità prevalga sulla banalizzazione e sulla neutralizzazione (includendovi la tentazione sottile di accentuare alcuni tratti collegati al sensazionalismo, pur astenendosi dall’offendere chiunque per assicurarsi un nuovo invito). Ad ogni modo, per quanto io sia un po’ meno rigoroso in questa materia dell’I.S., penso che per presentare o rappresentare “la prospettiva situazionista”, la migliore maniera è rifiutare tutto ciò che i situazionisti stessi hanno inevitabilmente rifiutato.

Chiunque è libero di ristampare, adattare o commentare l’Anthology o non importa quale altra mia pubblicazione. Non posso prendere seriamente coloro che non l’hanno mai fatto, pur cercando a tutti i costi di incontrarmi o di ottenere qualche scoop esclusivo allo scopo di dare agli spettatori l’impressione che hanno le informazioni migliori e più recenti su testi che spesso non si sono neppure dati la pena di leggere, ed ancora meno di mettere in pratica. Mi sembra che il fatto di mantenere questa distanza contribuisca a chiarire le cose. Poco dopo la pubblicazione dell’Anthology, per esempio, una sorta di scrittore professionista volle intervistarmi allo scopo di ottenere informazioni per un articolo che il settimanale East Bay Express gli aveva chiesto di scrivere sui situazionisti. Ho rifiutato di avere qualunque rapporto con lui, e l’articolo progettato non è mai apparso. Quasi nello stesso periodo ho rifiutato pure d’incontrare Greil Marcus che preparava un resoconto dell’Anthology per Village Voice di New York. Ma devo riconoscere che ciò non gli ha impedito di scrivere un articolo lungo e molto elogiativo. Dopo tutto, c’erano già molte informazioni nei testi dell’I.S., e poiché li aveva letti con cura, ha potuto fare un resoconto abbastanza corretto. Sebbene limitato per alcuni aspetti(1), il suo articolo era l’espressione onesta del suo punto di vista sui situazionisti, e del suo interesse entusiasta, e non la conseguenza di un ordine. Di modo che tutto è stato molto più chiaro.

All’inizio degli anni 80 avevo ristabilito relazioni amichevoli con la maggior parte degli altri firmatari di Notice. Avevano preso direzioni diverse, ed a parte Chris ed Isaac, che avevano pubblicato da quella volta ciascuno due o tre opuscoli, nessuno di loro non ha portato avanti un’attività radicale significativa dopo la nostra rottura del 1977. Nel 1982, Isaac e sua moglie Terrel Seltzer hanno fatto uscire Call It Sleep, una videocassetta di 45 minuti un po’ nello stile di Debord. Poco dopo, Isaac ha ripudiato la sua vecchia prospettiva radicale, giustificando la sua devozione ulteriore con occupazioni soprattutto finanziarie con un tipo d’ideologia neo-liberale che ha esposto in un libro curioso scritto con Paul Béland, Money: Myths and Realities (1986).

Ho criticato Isaac perché ha espresso dei punti di vista dai quali mi sentivo sentito costretto a dissociarmi. Ma vorrei riconoscere il mio debito verso di lui e molti altri vecchi compagni. Abbiamo vissuto insieme molti momenti appassionanti. La quantità di polemiche nell’ambiente situ ha dato la falsa impressione che ci siano stati soltanto problemi. In ogni caso, nel corso delle avventure che riferisco qui brevemente, ho annodato molte relazioni preziose, ho vissuto molti bei momenti, ed un’immensa quantità di risate. Ed anche i fiaschi erano spesso divertenti. Spero che i miei vecchi amici non li abbiano dimenticati interamente.

Una volta pubblicata l’Anthology, io mi sentiti meno obbligato a dedicare tanto tempo ed energia per spiegare la prospettiva situazionista, correggere gli errori su di essa, ecc. Le questioni più importanti erano lucidamente trattate dai situazionisti stessi nei testi che erano ora disponibili. Nel corso degli anni successivi, ho continuato a mantenere alcune corrispondenze di routine, a redigere alcune note di tanto in tanto, a distribuire testi e a scrivere, ma ho soprattutto iniziato ad esplorare nuovi campi.


La scalata

La mia prima nuova avventura fu scalare delle pareti di roccia, fare climbing, una delle ultime cose per cui avrei immaginato di entusiasmarmi. Come quasi tutti, avevo una grande paura del vuoto. Ma nel corso delle mie ultime escursioni, mi sentivo sempre più affascinato dall’idea di provare a scalare la roccia, provando un tipo d’attrazione primordiale e da primate alla vista delle scogliere o delle formazioni rocciose. Infine, ho dominato il mio terrore e mi sono iscritto ad un corso di climbing per principianti. Abbiamo passato due ore ad apprendere i principi di base, quindi siamo andati sulle colline di Berkeley a fare delle scalate. Alcune settimane più tardi ho seguito un corso più avanzato a Yosemite, ed ho fatto le mie prime vere scalate sulle falesie di granito, centinaia di metri in verticale.

Per due anni fare climbing è stata la mia passione dominante. Ogni volta che era possibile, andavo a Yosemite o altrove nella Sierra Nevada; ma di solito scalavo in città, andando in bicicletta varie volte alla settimana a Indian Rock per fare bouldering (la pratica dei movimenti difficili, ma rimanendo vicino al suolo). A condizione di avere delle buone scarpe (con la suola in gomma molto aderente ed estremamente strette, perché il piede sia compresso in una sola unità rigida come gli zoccoli di una capra di montagna), si constata con sorpresa che piccole dentellature nella roccia possono dare presa all’alluce o alle dita. Un rilievo della dimensione di un pisello basterà se orientate il corpo appena di quello che occorre, ricercando il corretto equilibrio tra le forze opposte e muovendovi con precauzione, ma in modo sicuro e rilassato (se tremate, avrete più possibilità di scivolare).

Se si fa attenzione e se si utilizzano correttamente le corde, una scalata non è così pericolosa come si crede. Tuttavia, c’è comunque un certo rischio. All’inizio mi piaceva così tanto che lo consideravo accettabile; ma dopo due anni mi sono deciso a fermarmi prima di tentare la provvidenza. In Island [Isola], romanzo utopistico di Aldous Huxley, fare almeno un trip psichedelico e scalare almeno una volta una scogliera (ma non nello stesso momento!) fa parte dell’educazione di qualunque adolescente. Riguardo ai rischi, esiterei a raccomandare l’una o l’altra senza riserva, ma queste due esperienze sono certamente state preziose per me.

Di tanto in tanto faccio ancora un po’ di bouldering o delle escursioni (più spesso attraverso le colline, attraverso i boschi e lungo la spiaggia a Point Reyes, che è molto vicina da qui), ma il mio principale esercizio in quest’ultimi anni sono stati la pratica del basket e del tennis. Giocare a basket con i giovani neri delle vicinanze era per me una buona sfida sia culturale che fisica: mi è sembrato di aver veramente compiuto qualcosa quando alla fine sono stato più o meno accettato come “one of the guys”. Oggi, non faccio praticamente più basket e mi sono dato al tennis — che è del resto quasi l’unica cosa che guardo alla televisione: la faccio uscire dalla cantina tre o quattro volte all’anno per Wimbledon e per altri tornei importanti.

Nell’autunno del 1984 ho fatto un altro viaggio in Francia, durante il quale sono stato per la maggior parte del tempo a Parigi dal mio amico Christian Camus. Ci eravamo incontrati in un contesto situ durante la mia visita precedente nel 1979, ma da allora si è dedicato soprattutto a sperimentare i diversi modi di animare il suo ambiente immediato. Questo va bene per me: se devo scegliere, preferisco frequentare persone che hanno uno spirito vivo che fanno cose interessanti nella loro vita, piuttosto che gente che non fa che rigurgitare banalità politiche e brontolare continuamente. Pieno d’ironia, provocatorio e scherzoso, amante delle battute in diverse lingue, giudicando con penetrazione i giochi e gli schemi della gente (nel senso di Eric Berne), Christian mi costringe a restare in guardia quando inizio a farmi troppo pedante.

Feci due piccoli viaggi fuori Parigi, in Dordogna dove vivevano Joël e Nadine, ed in Germania per rivedere i miei amici di Mannheim ed incontrare un altro gruppo a Berlino Ovest.


Ancora Rexroth

Ritornato a Berkeley, concepii due progetti relativi a Rexroth. Durante gli anni 70 il mio interesse per lui era diminuito. Alla luce delle prospettive situazioniste, le sue analisi politiche sembravano insufficienti, la sua idea di una sovversione per mezzo dell’arte e della poesia sembrava incerta e dubbiosa, ed alcune delle sue attività sembravano troppo compromettenti, come scrivere cronache giornalistiche o darsi al cattolicesimo.

Tuttavia, aveva continuato ad influenzarmi indirettamente. Ricordarmi della sua magnanimità scettica mi ha aiutato a non perdere il senso delle proporzioni durante alcune affari situ più traumatici. Nel mio opuscolo sulla religione del 1977 cercavo già di comprendere in quale misura queste due influenze principali sulla mia vita (Rexroth e l’I.S.) avrebbero potuto conciliarsi, e da quella volta lì il mio entusiasmo per lui si era ravvivato parecchio. Oltre a rileggere tutti i suoi libri, ho ricercato e fotocopiato tutti i suoi articoli sparsi che potevo trovare nella biblioteca dell’università, comprese tutte le cronache (più di 800) che ha scritto per l’Examiner di San Francisco.

Senza grandi speranze, ho proposto a molti editori di pubblicare un’antologia delle cronache. Questa proposta aveva suscitato per un certo periodo abbastanza interesse perché consacrassi molti mesi a rileggerle in modo da prepararne un campione rappresentativo. In fin dei conti, ci fu soltanto una piccola casa editrice che mi fece una proposta, così poco soddisfacente che la respinsi e mi rassegnai a mettere il progetto nell’armadio. Sarei stato contento di lavorarvi duramente e con un guadagno modesto, ma non avevo voglia di pubblicarla io stesso.

Ho pensato allora che sarebbe stato meglio fornire il mio punto di vista su Rexroth, provare a dire esattamente in che cosa l’avevo trovato così grande, e di chiarire i punti sui quali non ero d’accordo con lui. Oltre ad interessare eventualmente altra gente, sarebbe stato un buon metodo per mettere le mie idee in chiaro su ogni sorta di argomenti.

Questo progetto ha finito per occuparmi in modo intermittente per cinque anni. Sicuramente avrei potuto esprimere quasi tutto ciò che dovevo dire in un termine molto più breve; ma poiché non avevo alcun termine, ho preso il mio tempo ed ho dato libero corso alle mie inclinazioni, rileggendo i suoi libri più e più volte, spigolando le mie citazioni preferite, accumulando mucchi di note, e seguendo ogni sorta di argomenti tangenziali. Me era venuto in mente, ad esempio, che sarebbe stato interessante comparare Rexroth con altri autori indipendenti come H.L. Mencken, Edmund Wilson, George Orwell o Paul Goodman. Era un buon pretesto per rileggere molti dei loro libri, anche se, alla fine, li usai poco nel mio testo.


La pratica Zen

Nel 1985, iniziai anche a praticare lo Zen regolarmente. Negli ultimi anni avevo fatto un po’ di zazen di tanto in tanto da solo, ma non avevo partecipato ad una pratica di gruppo formale dagli anni 60. Come ho già detto prima, ero infastidito da alcune forme tradizionali di questa disciplina. Benché lo Zen sia meno dogmatico e più sofisticato intellettualmente della maggior parte delle religioni, la pratica tradizionale è abbastanza rigorosa e formale. Potevo comprendere l’utilità di alcune di queste forme per facilitare la concentrazione o l’autodisciplina, ma diffidavo di alcune altre che mi sembravano essere soltanto vestigia della gerarchia sociale orientale. Ero cosciente del deplorevole ruolo che aveva giocato la religione nel rafforzare la sottomissione del popolo all’ordine costituito e la sua notevole capacità di autoaccecamento(2).

Rexroth amava dire che “la religione è qualcosa che si fa, non qualcosa a cui si crede”. Non so se è vero per le grandi religioni occidentali, ma si applica almeno in parte ad alcune delle religioni orientali. Queste contengono probabilmente altrettante fesserie di quelle — di solito gli aspetti più superstiziosi ed insopportabili vengono con discrezione omessi nelle divulgazioni occidentali — ma sono generalmente più tolleranti ed ecumeniche. I loro miti sono spesso presentati esplicitamente come semplici metafore spiritose, ed insistono abbastanza poco sulla credenza. Lo Zen in particolare è più una pratica che un sistema di credenze. Si deve considerare che gli insegnamenti verbali non hanno alcun significato a meno che non li si metta alla prova e che ci si appropri di essi. Gli insegnamenti più essenziali si trasmettono con l’esempio vivo. Nonostante una traccia di gerarchia tra guru e discepolo (considerevolmente attenuata da quando lo Zen è stato adattato in Occidente), l’accento non è posto sul culto di esseri superiori, ma sulla pratica della meditazione e dell’attenzione nelle proprie attività quotidiane.

Nel mio libro su Rexroth ho indicato i limiti che, personalmente, mi sono fissato: “Una cosa è praticare questo o quel tipo di meditazione, o partecipare a rituali o a feste, dove tutti riconoscono che si tratta soltanto di forme arbitrarie per rifocalizzare la propria vita o celebrare la comunione umana. Un’altra cosa è sembrare dare credibilità ad istituzioni ripugnanti ed a nauseanti dogmi ai quali molti credono ancora.” Certamente è soprattutto una questione di gusto. Ho amici che si fanno meno scrupoli di me a parteciparvi, ed altri che non parteciperebbero in nessun caso a nessuna pratica religiosa formale. Da parte mia, amo la maggior parte dei rituali Zen, il silenzio, le campane, l’incenso, il pulito decor in stile giapponese, l’etichetta ultra-riguardosa. Ed il fatto di praticare con un gruppo offre molti vantaggi quanto all’amicizia, l’insegnamento, e l’incoraggiamento reciproco.

Ad ogni modo, avevo voglia di superare le mie riserve e tentare una pratica più regolare. Il centro di Berkeley nel quale andavo a volte negli anni 60 aveva continuato con discrezione la pratica dello Zen Soto che è stato introdotto in America da Shunryu Suzuki. Il maestro, Mel Weitsman, uno degli studenti di Suzuki di cui avevo fatto la conoscenza allora, era insieme sensato e discreto, ed i membri, laici e generalmente simpatici, che cercavano di integrare la pratica Zen nella loro vita quotidiana, sembravano avere conservato il loro senso dello humour ed aver evitato il settarismo. E non c’era neppure bisogno di alzarsi presto: c’erano ora delle sedute di zazen sia di pomeriggio che di mattina.

Ho cominciato con una seduta quotidiana di quaranta minuti.

Nello zazen (meditazione seduta) ci si siede a gambe incrociate su un cuscino duro, di fronte ad una parete bianca. Il ventre è spinto un po’ in avanti, in modo che la parte posteriore sia diritta e che il corpo sia bene equilibrato sulle natiche e le ginocchia. La bocca è chiusa. Gli occhi sono socchiusi ma abbassati. Le spalle sono rilassate. Si pongono le mani sull’addome, al livello dell’inguine, la sinistra sulla destra, i pollici si toccano leggermente. Se è troppo difficile sedersi in questo modo, altre posizioni sono possibili purché la schiena resti diritta. Ci si può sedere sui talloni, sempre su un cuscino, ma con le ginocchia in avanti ed i piedi indietro, o anche su una sedia. Ma è la posizione del loto (i piedi sulle cosce opposte) che permette la stabilità ottimale. Ma anche alcune alternative più facili (un piede sulla coscia o sul polpaccio opposto).

Nello zazen Soto ci concentriamo di solito sul mantenimento della posizione (che rettifica costantemente la tendenza ad incurvarsi o a irrigidirsi) e sul respiro, respirando con l’addome e contando silenziosamente le esalazioni: “U-n-o-o..., d-u-u-e...” Quando si arriva a dieci, si ricomincia. I numeri servono soltanto come focalizzazione arbitraria non emotiva per aiutare a mantenere la concentrazione. Si tratta di avvicinarsi quanto più possibile ad una condizione di “non far niente”, pur rimanendo completamente attenti e vigili.

Non è così facile come si pensa. La maggior parte di noi ha sviluppato una viva resistenza al fatto di essere nel presente. Ciò che accade generalmente, è che prima di essere arrivati a “tre” o “quattro”, ci si trova immersi in memorie, sogni, desideri, preoccupazioni, timori, rimpianti. Questa cacofonia ripetitiva si manifesta per la maggior parte del tempo nella nostra mente, ma lo zazen ce ne rende più profondamente coscienti. Può essere sconvolgente rendersi conto della piccolezza e del carattere compulsivo dei propri pensieri e delle proprie sensazioni. È ciò che ho provato, in ogni caso. Questo mi ha permesso di comprendere come i cristiani che hanno provato esperienze simili potevano percepirle come una conferma di una colpevolezza inerente all’uomo, non lasciando loro alcuna soluzione se non la fede in una redenzione sovrannaturale. Il buddhismo affronta queste questioni con maggiore calma, in modo più tollerante e più obbiettivo, senza insistere perché la gente si batta inutilmente il petto. Cercare di reprimere “la mente scimmia” non fa che causare ancora più confusione emotiva. Ma se ci si mantiene semplicemente calmi, se si lasciano passare tutti questi pensieri senza formulare nessun giudizio, e se si ritorna costantemente alla respirazione, allora i turbamenti, non rinforzati, tenderanno a depositarsi, ad alleviarsi, e si diventa meno emotivi, meno inclini alle abitudini ed alle associazioni compulsive. Non si tratta di eliminare i pensieri o le emozioni, ma di smettere di aggrapparvisi — di smettere di aggrapparsi anche al senso del vostro progresso verso il non aggrapparsi più. Nel momento in cui cominciate a pensare: “Ah! Alla fine faccio dei progressi! Quello ne sarà impressionato!” avete perso la coscienza del presente. Registrate questo fatto semplicemente e con calma, quindi ricominciate: “U-n-o-o..., d-u-u-e...”

Dopo due mesi di sedute quotidiane, ho iniziato a partecipare alle sesshins mensili. Una sesshin consiste in uno o più giorni di pratica Zen intensiva, soprattutto dedicata allo zazen, ma in cui tutte le altre attività sono svolte con uno sforzo simile per concentrarsi attentamente su tutto ciò che si fa. Una sesshin tipica si svolge dalle 5 alle 21. Si fa zazen per periodi di quaranta minuti, alternati con periodi di dieci minuti di kin-hin (meditazione camminando molto lentamente, per sgranchirsi le gambe). Colpi di campane o di battagli di legno segnalano l’inizio e la fine dei periodi. Non si parla eccetto per la comunicazione minima e discreta che resta necessaria durante il lavoro. I pasti si svolgono ugualmente nella zendo (sala di meditazione), ed la procedura per servire e per mangiare è altamente ritualistica. I servitori portano un piatto, vi salutate, vi servono, fate un gesto con il palmo della mano per segnalare “abbastanza”, vi salutate ancora, quindi passano alla persona seguente...

Mi piacevano in particolare le sesshins più lunghe (cinque o sette giorni). Nel primo giorno di una sesshin si può ancora essere preoccupati per gli affari propri, ma dopo tre o quattro giorni difficilmente non ci si è adattati al ritmo della sesshin. Si dice che ci siano due tipi d’esperienza Zen. Una è improvvisa ed innegabile, come quando si prende una secchiata d’acqua in testa. L’altra è più graduale e più sottile, come quando si cammina nella nebbia, e ci si rende conto che gli abiti si sono impercettibilmente inzuppati. Vi sentirete un po’ così verso la fine di una sesshin. Tutto inizia ad armonizzarsi.

Ma può anche essere abbastanza penoso, con stanchezza, spalle anchilosate, schiena dolorante, ginocchia sensibili. Benché diventi più facile nella misura in cui il corpo si abitua, la maggior parte della gente prova sempre qualche dolore alle ginocchia durante le sesshins. Non si tratta di vedere quanto dolore si può sopportare (se è realmente troppo, si può sempre cambiare per una posizione più facile), ma di apprendere a reagire con equanimità a tutto ciò che capita; a porsi nel momento presente e cessare di languire per il passato o il futuro. Dopo un po’ di tempo si scopre che la causa della sofferenza risiede meno nel dolore presente che nell’ansia timorosa di eventuali dolori. Il primo giorno di una sesshin può essere orribile se ci si siede con il pensiero di altri sette giorni da subire. Ma se si prende “un solo respiro alla volta”, non è così male.

È uno dei più grandi vantaggi della pratica collettiva. Quando ci si siede da soli, è troppo facile bloccarsi quando qualcosa ci disturba un po’, ma quando molti partecipanti si sono impegnati a seguire una sesshin e tutti sono seduti insieme, ciascuno incoraggia tutti gli altri con il suo sforzo.

A partire dal momento in cui avete acquisito un po’ di pratica zazen, altre responsabilità vi sono imposte che esigono altrettanta attenzione. Se essete servitori, non dovrete essere distratti, altrimenti potreste rovesciare la minestra su qualcuno. Se vi trovate a dirigere un gruppo di lavapiatti, dovrete stare attenti che i piatti siano sistemati correttamente, senza peraltro turbare gli sforzi di concentrazione degli altri chiaccherando in continuazione. Ogni situazione presenta nuove sfide per trovare il giusto mezzo tra l’efficacia e la presenza di spirito, il calcolo e la spontaneità, lo sforzo e la comodità.

Si spera che alcune di queste pratiche si integrino gradualmente nella propia vita quotidiana. Non voglio dare l’impressione che lo zazen sia una panacea, ma sono sicuro che la pratica regolare di una meditazione, quale che sia, aiuti a sviluppare un po’ più di pazienza e di senso della prospettiva; a riconoscere che alcuni problemi sono illusori o senza importanza, e ad affrontare con più calma e più obiettivamente quelli che sembrano sempre importanti.

Dopo un anno e mezzo di partecipazione intensiva al centro, mi sono un po’ stancato, ed ho ricominciato a fare il mio zazen quotidiano da solo. Tuttavia continuavo a partecipare alle sesshins più lunghe. Ho iniziato anche a prendere parte alle sesshins di altri centri Zen della California del Nord, in particolare a quello che Gary Snyder e altri (fra cui un vecchio amico di Sam che avevo conosciuto dagli anni 60) hanno costruito sul loro terreno nei contrafforti della Sierra Nevada. Come ci si poteva aspettare, loro conoscono ed apprezzano la natura: alcune delle loro sesshins includono escursioni di sette giorni (zaino in spalla) — una combinazione difficile ma potente!

Verso l’inizio del 1988 pensai di prendere parte ad un “periodo di pratica” intensiva di tre mesi nel monastero di Tassajara. Da anni avevo vagamente immaginato che andare in un monastero Zen sarebbe una delle esperienze supreme della vita; ed allora, ho iniziato a pensare che avrei potuto farlo realmente. In primavera passai a Tassajara otto giorni per vedere l’ambiente, e mi piacque molto. Ritornato nella Bay Area, ho partecipato a qualche altra sesshin ed ho riordinato i miei affari, quindi verso la fine di settembre tornai a Tassajara.

Primo monastero Zen nell’emisfero Occidentale, fondato nel 1967 da Shunryu Suzuki, Tassajara si trova sulle montagne costiere a 200 chilometri a sud di San Francisco. Era in precedenza una località turistica per le fonti di acqua calda, ed è sempre attiva in estate; ma durante il resto dell’anno è chiusa al pubblico.

Oltre a Mel, che lo dirigeva, il “periodo di pratica” prevedeva 26 partecipanti (14 uomini e 12 donne), e due dipendenti che si occupavano degli interventi tecnici e degli acquisti. Nei tre mesi successivi nessuno fra noi è andato via da Tassajara, e nessuno vi è venuto, eccetto due monaci giapponesi di passaggio e due o tre persone del centro Zen di San Francisco.

Eravamo in undici ad essere là per la prima volta e quindi abbiamo dovuto subire un’iniziazione di cinque giorni, cioè una sesshin ultra-intensiva più dura, fisicamente e mentalmente, di una sesshin ordinaria (niente kin-hin, né lavoro). A parte una pausa di una mezz’ora dopo ogni pasto e per andare alla toelette se necessario, dovevamo restare sui nostri cuscini dalle 4.20 a.m. fino alle 9 p.m.

Ancor più che durante una sesshin ordinaria, tutto finisce per livellarsi. Il tempo rallenta. L’attenzione si concentra sulle cose più semplici. Nient’altro da fare che cuocere nel proprio brodo (letteralmente e metaforicamente: faceva molto caldo) e imparare con calma a non tenere in alcun conto le piccole mosche implacabili che si dilettano a strisciare attorno agli occhi, agli orecchi e alle narici. (L’unica soluzione è di accettarle: “d’accordo, piccoli birbanti, strisciate pure se ci tenete! Non mi muoverò.”) Non fate nulla a parte sedevi, perfettamente calmi, respiro dopo respiro... La campana suona. Aumentate lentamente, conservando gli occhi sempre abbassati. Raggiungete gli altri per un rituale. Quindi, tornate al vostro cuscino per un pasto. Quindi una pausa. Uscite lentamente dalla zendo, cercando di mantenere una concentrazione totale nonostante lo splendore scoperto improvvisamente della natura all’esterno. Prendete una tazza di tè. Massaggiate le vostre gambe indolenzite. Restano ancora alcuni minuti preziosi per sedersi accanto al ruscello e lasciare che il suono dell’acqua scenda attraverso la vostra testa. Quindi ritornate alla zendo. Vi ponete nella posizione corretta. Vi tranquillizzate completamente. Nulla oltre il vostro respiro, respiro dopo respiro...

Dopo l’iniziazione, siamo ritornati ad un programma quotidiano un po’ meno intensivo. Tutte le mattine alle quattro eravamo svegliati da qualcuno che scendeva sulla via principale correndo e facendo suonare una campana. Appena il tempi fa per lavarsi la faccia, fare alcuni esercizi yoga di distensione, indossare l’abito per la meditazione ed andare alla zendo. La mattina era come una sesshin: soprattutto lo zazen, con la colazione ed il pranzo serviti come un rituale nella zendo. Nel pomeriggio lavoravamo per tre ore. Ero nel gruppo che si occupava dei lavori diversi, carpenteria, giardinaggio, lavare i piatti, pulizia, ecc., e mi incaricavo anche della biblioteca. Dopo il lavoro veniva la parte più voluttuosa del giorno: un bagno caldo calmo seguito da un’ora di tempo libero. Quindi rimettevamo i nostri abiti e tornavamo alla zendo per la cena. Quindi un periodo di studio seguito da un supplemento di zazen, ed infine a letto alle nove e mezza. Non avevo mai nessun problema ad addormentarmi: la prossima cosa che avrei sentito sarebbe stata la campana della sveglia.

Ogni cinque giorni avevamo il privilegio di poter dormire fino alle cinque. Quindi, dopo una seduta di zazen e la colazione, avevamo tempo libero fino alla sera. Lo usavamo generalmente per fare il bucato, preparare il pranzo e fare un’escursione, o restare là leggendo, scrivendo lettere o intrattenendosi delicatamente. La sera avevamo una lezione sul “Genjo Koan” di Dôgen: “Studiare la via buddista, è studiare sé stessi. Studiare sé stessi, è dimenticare sé stessi. Dimenticar sè stessi, è essere illuminato da tutte le esistenze. Essere illuminato da tutte le esistenze, è lasciar cadere il corpo e la mente. vedere scomparire ogni traccia di risveglio e fare nascere costantemente il risveglio senza traccia...”

Dopo alcune settimane il tempo si rinfrescò. All’ombra delle montagne circostanti, Tassajara diventa fredda ed umida in autunno ed in inverno, almeno fino a mezzogiorno, e non c’era né riscaldamento né isolamento termico. Almeno il freddo ci aiutava a svegliarci. Benché la routine fosse spartana per certi aspetti, era stimolante arrivare all’essenziale e vivere in una comunità in cui tutti lavoravano insieme tranquillamente. Per me, una sesshin o un “periodo di pratica” suggerisce le vere possibilità della vita. Quando incrociamo qualcuno su un sentiero, ci fermavamo tutti e due, ci salutavamo, quindi riprendevamo il nostro cammino senza una parola. Meraviglioso!


Letture, scritti, traduzioni, musica

Rientrato a Berkeley, ritornai a quella che era la mia pratica zen da tempo (cioè, un breve periodo di zazen da solo tutte le mattine, oltre alle lunghe sesshins qualche volta all’anno), e ripresi il lavoro su Rexroth (The Relevance of Rexroth). Avevo accumulato centinaia di pagine di note, ma alla fine decisi di lasciarne fuori la maggior parte e ridurre il testo ad una presentazione breve e relativamente accessibile di alcuni temi principali. Il libro è stato infine completato nel 1990. Le vendite sono state abbastanza modeste, ma (e questo è uno dei vantaggi dell’auto-edizione) ho potuto donare copie a centinaia di amici e conoscenti, a volte anche a sconosciuti. Continuerò a farlo con le numerose copie che possiedo ancora, ma ho inserito il testo anche in questo libro [il libro: Public Secrets] perché tratta molte questioni importanti per me che non sono esposte negli altri miei scritti.

Nel gennaio 1991 la guerra del Golfo ha fatto scendere centinaia di migliaia di persone nelle strade per la prima volta dopo anni. Iniziai immediatamente a scrivere l’opuscolo The War and the Spectacle  [La guerra e lo spettacolo]. La maggior parte delle idee di questo testo erano già state largamente discusse o conosciute intuitivamente, ma pensavo che il concetto situazionista di spettacolo avrebbe aiutato a collegarle. Con l’aiuto dei miei amici, ne ho diffuso 15.000 copie in alcuni mesi. Oltre ad inviarlo agli individui, ai gruppi ed alle librerie radicali ovunque nel mondo, ho saturato il milieu antimilitarista locale, distribuendolo alle manifestazioni, alle raccolte, durante la proiezione di film, nel corso di concerti umanitari, di rappresentazioni di teatro radicale nei parchi, di dibattiti “sulla guerra ed i mass media”, e delle apparizioni di Ramsey Clark e di Thich Nhat Hanh. È stato il testo meglio recepito di quelli che ho diffuso. Fra tutti coloro che l’hanno avuto tra le mani, quasi nessuno si è lagnato di non averlo compreso, molte persone mi hanno detto più tardi che lo avevano fotocopiato ed inviato ai loro amici o che lo avevano trasmesso con reti telematiche, ed è stato più volte ristampato e tradotto.

Una dei rari critici del testo si è detto sorpreso che siano stati necessari oltre due mesi per scrivere un così breve articolo. Invidio la gente che sa scrivere più rapidamente, ma questa lentezza mi è abituale. Scrivo certamente molto — prendendo note su tutto ciò che potrebbe avere una minima relazione con il mio argomento, a volte anche lasciandomi andare a libere associazioni di idee —, ma di solito non sono soddisfatto prima di avere condensato radicalmente i materiali, riesaminando tutti i dettagli in varie riprese, eliminando le ridondanze e le esagerazioni, provando diversi rimaneggiamenti, esaminando eventuali obiezioni e malintesi. Credo che un testo ben ragionato abbia un effetto più penetrante, e infine una maggiore portata, di una decina di testi poco ordinati.

Poiché affronto soltanto argomenti che mi interessano realmente, questo processo in genere mi assorbe abbastanza. A volte raggiungo lo stato del “rush negativo” che ho descritto in Double-Reflection [Doppia riflessione] — la mia mente è attraversata da così tante idee che non riesco ad avere il tempo per trascriverle. Se sto camminando devo fermarmi ogni due o tre minuti per prendere note. Potrei anche alzarmi in mezzo della notte per scarabocchiare delle note. A volte sono così preso che se fossi di fronte alla morte imminente, la mia prima preoccupazione sarebbe: Se soltanto potessi completare questo testo, allora morirei contento!

Altre volte sono depresso, e qualsiasi cosa che ho scritto mi sembra noiosa e banale. Posso lavorare un intero giorno su un passaggio, trascorrere una notte insonne pensando, quindi alla mattina, disgustato, gettare tutto nella pattumiera. Quando il testo si avvicina alla pubblicazione, mi tormento a proposito di eventuali conseguenze. Una frase non riuscita può comportare una grande perdita di tempo, a causa dei malintesi; una buona frase può causare una svolta nella vita di qualcuno.

Abbiamo tutti una tendenza naturale a rifiutare le cose che contraddicono i nostri punti di vista. Secondo me, il miglior modo di contrastare questa tendenza è quello che usava Darwin: “Da anni seguo una regola d’oro: ogni volta che mi imbattevo su un fatto pubblicato, su una nuova osservazione o su un pensiero che contraddice le mie teorie, ne ho preso subito nota con precisione; poiché ho constatato che tali fatti e tali pensieri sono molto più suscettibili di sfuggire alla memoria di quelli favorevoli.” Cerco di seguire questa norma, facendo l’avvocato del diavolo su qualsiasi questione, esaminando accuratamente ogni critica e annotando immediatamente ogni obiezione che mi viene in mente — rispondendo se posso, modificando o abbandonando la mia posizione se non posso. Anche gli attacchi più deliranti contengono di solito alcuni punti validi, o almeno rivelano malintesi da chiarire.

Ma occorre trovare una giusta via psicologica. Preoccuparsi troppo di eventuali obiezioni vi impedisce di fare qualunque cosa. I situazionisti ortodossi disprezzano il mio misticismo, i seguaci della New Age hanno l’impressione che io sia troppo razionalista, i gauchistes tradizionali mi rimproverano di ridurre al minimo l’importanza della lotta di classe, gli arbitri del political correctness lasciano intendere che dovrei esprimere una maggiore contrizione per la mia qualità di maschio bianco americano, gli accademici lamentano la mia mancanza d’obiettività erudita, i pigri mi trovano troppo meticoloso, alcuni si lagnano che i miei scritti sono troppo difficili, altro mi accusano di semplificare troppo... Se prendessi tutte queste obiezioni seriamente, diventerei catatonico! Alla fine bisogna decidersi!

Per quanto possibile provo a fare in modo che qualsiasi progetto sia una nuova avventura, scegliendo un argomento che non avevo mai analizzato o un metodo che non avevo mai impiegato. Questo lo rende più interessante almeno per me, e spero anche per il lettore. Cerco anche di evitare di caricarmi di troppe cose in una volta. Ci si trova in breve prostrati se si assorbono costantemente tutte le cattive notizie del mondo o se si prova a contribuire a tutte le buone cause. Mi concentro generalmente su uno o due progetti che mi interessano così profondamente che sono pronto a dedicare loro tutto il tempo e le spese necessarie, non prestando attenzione alle cose riguardo alle quali non ho intenzione di far nulla.

Sono ritornato nuovamente in Francia nell’autunno del 1991, sistemandomi ancora da Christian, con il sua ragazza e suo fratello, ed in questa occasione, ho fatto tre viaggi fuori Parigi: a Grenoble per rendere visita a Jean-François Labrugère, un amico che ha tradotto molti dei miei scritti con una meticolosità esemplare; a Varsavia per incontrare dei giovani anarchici che avevano appena scoperto i situazionisti; ed a Barcellona, dove raggiunsi alcuni dei miei amici tedeschi. Durante il viaggio di ritorno a Parigi, passai alcuni giorni in Dordogna per vedere Joël e Nadine. Vari anni prima avevo fatto conoscere loro Rexroth. Alla fine erano diventati rexrothiani entusiasti quanto me, ed avevano appena completato una traduzione del primo dei suoi libri ad uscire in Francia: Les Classiques revisités [I classici rivisitati].

Passai gran parte del tempo a Parigi dedicandomi alla mia principale passione musicale degli ultimi anni, la canzone francese, frequentando i mercati delle pulci ed i depositi di dischi d’occasione, registrando le raccolte dei miei amici e provando a decifrare i testi più oscuri e gergali delle canzoni. un mondo ricco e affascinante, dai cantanti di cabaret del XIX secolo come Aristide Bruant (l’uomo della sciarpa rossa e della cappa nera rappresentato sul notissimo manifesto di Toulouse-Lautrec, che fu ordinato per fare pubblicità al caffè dove cantava Bruant), passando per le chansons réalistes tragiche e sordide (Fréhel, Damia, la prima Piaf) e gli artisti di music-hall degli anni 30, come il delizioso “fou chantant” Charles Trenet, fino alla rinascita dei grandi cantanti poeti del dopoguerra, con Georges Brassens (il più grande, che va dalle elegie commoventi e sagaci alle satire più oltraggiose), Anne Sylvestre (un’affascinante paroliera, che fa pensare un po’ al primo Leonard Cohen e a Joni Mitchell), Léo Ferré, Jean-Roger Caussimon, Jacques Brel, Guy Béart, Félix Leclerc, come pure molte interpreti eccellenti di canzoni più vecchie, tra le quali la mia favorita è Germaine Montero.

È difficile trovare questa musica negli Stati Uniti, ma i miei amici ed io ne abbiamo di tanto in tanto un assaggio quando The Baguette Quartette si esibisce al folk music club “Freight and Salvage” a Berkeley, che ha presentato tanti musicisti meravigliosi in tre decenni. Benché abbia avuto molte passioni musicali nel corso degli anni, dai suoni primordiali degli ensembles di tamburi giapponesi (taiko) fino alla canzone greca rebetica, ho sempre conservato una predilezione particolare per la vecchia musica popolare americana, probabilmente perché è la sola che sia capace di suonare. Mi diverto ancora a suonare in piccole riunioni di amici (alcuni dei quali ho conosciuto a Shimer ed a Chicago), ed io manco soltanto di rado alle “East Bay Fiddlin’ and Pickin’ Potlucks”, riunioni mensili da qualcuno che ha una casa abbastanza grande, durante le quali un centinaio di persone porta piatti e suona della musica per tutto il pomeriggio. Tra le chiacchiere e il mangiare la gente si raccoglie secondo i loro gusti preferiti — il bluegrass, dicono, nel cortile, la musica irlandese all’entrata, il canto corale di sopra, lo swing degli anni 30 attorno al piano, se ce n’è uno, le vecchie arie di violino sotto la veranda, il blues, o forse la musica cajun o klezmorin, nel corridoio o sul marciapiede... Mi trovo di solito nell’uno o nell’altro dei gruppi più “tradizionali”, che cantano e che suonano col violino o con la chitarra — nulla di complicato, ma abbastanza per divertirsi. Tutti partecipano al loro livello: i suonatori meno abili, come me, fanno ciò che possono per seguire i più bravi, ma ciascuno è sempre libero di lanciare una canzone o un’aria che conosce. Queste riunioni si svolgono senza grandi difficoltà quasi da vent’anni, in modo puramente autogestito e volontario. Penso a volte a questi, e a tanti altri circoli e reti simili che esistono ovunque senza mai ricercare o conoscere la minima notorietà nello spettacolo, prefigurando il modo in cui le cose potrebbero funzionare in una società sensata. Convengo che non sia molto. Precisamente. Ecco l’interesse: il fatto che siano così semplici.

Sono ancora d’accordo con i situazionisti che le arti sono soltanto forme limitate della creatività, e che è più interessante cercare di esercitarsi nel progetto di trasformare le nostre vite ed infine l’intera società. Quando mi sono impegnato in questo grande gioco, ho pensato di veder diminuire la mia inclinazione per le attività artistiche. Ma c’è un tempo per ogni cosa. La critica situazionista dello “spettacolo” (cioè del sistema spettacolare) è la critica di una tendenza sociale eccessiva; non vuol dire che sia un peccato essere spettatore, non più di quanto la critica marxista del sistema mercantile imponga alla gente di fare a meno dei beni.

Ho sempre trovato divertente che i radicali credano di dover giustificare il loro consumo culturale facendo finta di trovarvi sempre qualche messaggio radicale. Personalmente preferisco di molto leggere le opere di un essere umano pieno di brio e con uno scintillio negli occhi, come Rexroth, Mencken, Henry Miller o Ford Madox Ford, piuttosto che qualche puritano politically correct. In realtà, preferisco Omero, Basho, Montaigne o Gibbon a non importa quale autore moderno. Posso ancora apprezzare nel loro giusto valore alcune grandi opere del passato, riconoscendo che le loro limitazioni erano naturali nel contesto dei loro tempi; ma mi è difficile prendere sul serio i visionari del post-1968 che non sono neppure accorti delle nuove possibilità di vita. Quando si tratta degli autori contemporanei, non leggo praticamente che opere d’evasione che non hanno alcuna pretesa di profondità o di radicalità. Fra i miei preferiti, i romanzi polizieschi di Rex Stout (non tanto per l’intrigo quanto per il mondo divertente della famiglia di Nero Wolfe e per la narrazione animata di Archie Goodwin); le fantasie ed la science-fiction di Jack Vance (per la varietà notevole di società strane e per i suoi dialoghi sardonici ed ironici); e i saggi scientifici di Isaac Asimov, che aveva un talento raro per mostrarsi allo stesso tempo istruttivo e divertente su qualsiasi argomento, spiegando le ultime scoperte dell’astronomia o della fisica delle particelle elementari, o speculando sui rapporti sessuali in una stazione spaziale in assenza di gravità.

Nel 1992 mi proposi di tradurre in francese il mio libro su Rexroth. Anche se non dovesse mai essere pubblicato, volevo averne almeno una versione decente tra le mani da dare ai miei amici ed ai miei conoscenti. Era anche una buona occasione per perfezionare il mio francese, che era ancora abbastanza limitato. Preparai una prima stesura sul mio nuovo computer, quindi, nel corso dell’anno seguente, inviai delle bozze successive a Jean-François Labrugère, su cui ha fatto numerose correzioni e proposte per migliorarne lo stile. Ne facemmo circolare una versione provvisoria nel 1993 ed una nuova versione rivista e corretta è stata pubblicata nel 1997.

Nello stesso periodo iniziai anche a collaborare con Joël Cornuault su una serie di traduzioni delle opere di Rexroth, a partire da un’edizione bilingue di una trentina delle sue poesie, L’automne en Californie [L’autunno in California], nel 1994 e proseguendo con una scelta delle sue cronache, Le San Francisco de Kenneth Rexroth [La San Francisco di Kenneth Rexroth], nel 1997.

Mi ha fatto molto piacere collaborare con questi due traduttori, perché tutti e due si prendono cura di verificare accuratamente la sfumatura precisa di ogni espressione, anche se ciò a volteimpegna molto tempo quando viene fatto per corrispondenza.


Come mai ho scritto questo libro

L’anno 1993 ha raccolto molte cose della mia vita, portandole infine nel libro che avete tra le mani. All’inizio dell’anno sono finalmente riuscito a leggere per intero À la recherche du temps perdu [Alla ricerca del tempo perduto] di Proust. Immerso in quest’opera immensa, a volte noiosa, ma nel’insieme affascinante, mi è venuto in mente di ripercorrere il mio passato. Ho dunque iniziato a scrivere tutto quello che riuscivo a ricordarmi dei miei primi anni, principalmente perché mi interessava, ma anche con l’idea che avrei potuto presto o tardi mostrare il testo ad alcuni amici intimi. Poiché una cosa richiamava l’altra, ci furono presto più di cento pagine.

Questo si è rivelato un buon modo di affrontare molti problemi ed errori del mio passato. Il fatto di ricordarmi dei bei tempi andati mi ha indotto anche a riprendere i rapporti con molti vecchi amici, tra cui Mike Beardsley, che non vedevo da più di vent’anni. Sono riuscito a trovarlo, abbiamo avuto alcune lunghe conversazioni al telefono, ed in giugno ho preso l’aereo per Chicago per vederlo. Si trovava ad esercitare la professione abbastanza stressante d’insegnante nelle zone diseredate del centro città, era passato attraverso a molti matrimoni e a molti divorzi tempestosi, ed era ingrassato; ma aveva conservato molto del suo vecchio spirito selvaggio ed indipendente. Fu meraviglioso rivederlo. Per aumentare la nostalgia, abbiamo preso l’automobile per andare al campus della vecchia città universitaria di Shimer, in occasione di una riunione che per caso si svolgeva nello stesso momento, ed abbiamo rivisto molti altri vecchi amici per la prima volta dagli anni 60.

Due mesi più tardi ho ricevuto la notizia della sua morte improvvisa. Per sopportare il dolore, ho scritto in libera associazione una lunga elegia che celebra la nostra vecchia amicizia. Quindi l’ho lavorata di nuovo fino ad ottenere ad un testo più breve che ho fatto circolare fra alcuni amici e parenti:


MICHAEL BEARDSLEY (1945-1993)

Mike è morto il 29 agosto per arresto cardiaco mentre era all’ospedale per curare una polmonite.
       Fummo amici stretti soltanto per due anni, dal 1961 al 1963, ma era un’epoca essenziale e appassionante per tutti e due. Ci incontrammo allo Shimer College, dove eravamo compagni di camera, quando avevamo soltanto 16 anni, quindi tutti e due lasciammo la scuola per vagabondare in California, in Texas, dove la sua prima moglie, Nancy, partorì suo figlio ed a Chicago. Alcuni anni più tardi emerse una controcultura che comprendeva alcune nostre aspirazioni diffondendosi tra milioni di persone. Ma all’inizio degli anni 60 quella trama stava ancora tessendosi clandestinemente qua e là. Con i nostri compagni nella ricerca, eravamo ancora abbastanza isolati, avanzando solitari, a tentoni, verso nuove visioni, nuovi stili di vita. Per alcuni aspetti quest’isolamento rendeva le cose più difficili per noi, ma dava anche un sapore particolare alle avventure ed alle disavventure che abbiamo condiviso — scoprendo lo Zen ed il peyotl, Rimbaud ed i beats, Henry Miller ed Hermann Hesse, Leadbelly e Ravi Shankar; vivendo giorno per giorno, sperimentando costantemente, a volte fino alla temerarietà, partendo in autostop attraverso il Middle West vasto ed oblioso, trovandoci a volte in strada da qualche parte in mezzo alla notte, ma senza mai proccuparci troppo, scendendo lungo la grande strada deserta canatata da Coltrane ed immaginando il grande mondo, laggiù, che rimaneva da esplorare.
       Ci siamo alla fine separati, ciascuno seguendo il suo cammino, e ci siamo parlati solo sporadicamente nel corso dei trent’anni successivi. Quindi un umore nostalgico mi ha fortunatamente spinto ad andare a trovarlo, e sono andato a Chicago appena due mesi fa. Nonostante tutta l’acqua che era passata sotto i ponti da quei tempi, abbiamo rivissuto alcuni bei momenti della nostra vecchia amicizia. Mi rallegravo già di far rivivere la nostra amicizia negli anni a venire. Quindi, tutto d’un colpo, non era più là.
       Mentre piangevo la sua morte mi sono reso conto che piangevo in realtà su me stesso, perché una parte preziosa della mia vita era scomparsa. So che altri, che erano vicini a lui, provano la stessa perdita. triste pensare a tutte le cose che abbiamo condiviso, o che avremmo potuto condividere con lui. Tuttavia, alla fine, non credo che gli siano mancate molte cose nella vita. Mike aveva una vita molto tumultuosa, piena di passioni e di sofferenze, ma l’ha vissuta con meraviglia ed intensità. Una volta entrò nella mia camera senza farsi sentire, mentre ero addormentato ed esclamò: “Ken! Svegliati! Il mondo è magico!” “Che? Oh sì, lo so, Mike, ma ascolta, sono andato a dormire molto tardi questa notte...” “Ma Ken, voglio che tu ti accorga realmente che il mondo è magico. Proprio qui! Adesso! Osserva!” Inutile discutere con lui — dovetti alzarmi e vedere. E certamente, aveva ragione.
       Addio, vecchio amico.


È stata la morte di Mike, più che altro, che mi ha convinto a pubblicare quest’autobiografia. Mi rallegrava l’idea di mostrargliela perché avrebbe potuto ricordarmi delle cose che avevo dimenticato. Ma ora è troppo tardi. Non ho intenzione di tirare le cuoia in un prossimo futuro, ma questo genere di shock ci ricorda che non vivremo eternamente, e che se vogliamo fare qualcosa, è meglio non aspettare.

Il fatto di raccogliere e mettere a punto tanti aspetti diversi della mia vita mi ha indotto anche a riprendere le mie vecchie note. Dalla fine degli anni 70 avevo accumulato osservazioni su diverse questioni di tattica e situazioni radicali, senza mai riuscire ad organizzarle in modo coerente. Ora i due progetti iniziavano a completarsi. La forma più sciolta dell’autobiografia si prestava ad includere brevi osservazioni su vari argomenti che non avrebbero meritato interi articoli (risposte alle domande che mi sono spesso posto, chiarificazioni di alcuni malintesi, tentativi di comunicare ciò che ho trovato interessante su questo o quel soggetto), e che sarebbero serviti in qualche caso ad illustrare, sviluppare o precisare temi che erano presentati più obiettivamente in The Joy of Revolution [La gioia della rivoluzione]. I materiali potevano essere trasferiti da un testo all’altro come mi pareva.

Ho pensato anche di riunire e ristampare le mie vecchie pubblicazioni. A parte alcune dichiarazioni eccessive ed alcuni riflessi di retorica situ, rivendico ancora la maggior parte di ciò che ho scritto, benché questi testi possano certamente sembrare oscuri a quelli che non si sono mai impegnati nel genere di attività che sono descritte.

Per qualche tempo ho previsto diverse pubblicazioni distinte: riservare l’autobiografia agli amici intimi, pur pubblicando gli altri scritti sotto forma di opuscoli o di piccoli libri; o forse rielaborare degli estratti dell’autobiografia perché servissero da commento ai vecchi testi ristampati; o pubblicare una rivista che comprendesse The Joy of Revolution [La gioia della rivoluzione] e altri testi diversi. Alla fine mi è venuto in mente che molte cose si sarebbero semplificate se avessi inserito tutto in un solo libro. Per quanto eteroclita potesse sembrare tale compilazione, avrebbe avuto il vantaggio di rivelare le correlazioni (che, senza questa, potrebbero non essere ovvie ai lettori) come anche le contraddizioni (che, senza questa, non potrei guardare in faccia).

Sapere che il libro sarebbe letto da una gran varietà di persone, la maggior parte delle quali, ma non tutti, conosce i situazionisti, presenta molte sfide interessanti, come quella di legare tra loro i diversi aspetti e quella di trovare il giusto mezzo tra il troppo e il troppo poco nelle spiegazioni. Senza dubbio il miscuglio che ne risulta (in parte cronaca politica, in parte autoanalisi, in parte semplice nostalgia) non soddisferà completamente nessuno — alcuni si chiederanno perché affronto alcuni argomenti, altri desidereranno al contrario che fornisca maggiori dettagli gustosi.

Una volta che ho deciso di pubblicare l’autobiografia, ho tolto molti dettagli personali che erano presenti nella prima stesura, sia perché potrebbero imbarazzare le persone interessate, sia perché avrebbero presentato scarso interesse alla maggior parte dei lettori. A parte alcune eccezioni non ho designato nessuno con il suo nome a meno che non si sia impegnato in un’attività pubblica.

Convengo sul fatto che quest’autobiografia riveli una certa autocompiacenza. Benché abbia citato alcuni episodi penosi che erano troppo determinanti per essere omessi, nell’insieme non sono stato troppo duro verso me stesso, trattando soltanto delle cose che trovo piacevole ricordare e che, credo, potrebbero interessare i miei amici e forse qualcun altro. Se alcuni lettori mi prendono per un egotista per essermi permesso di scrivere sulla mia vita relativamente poco spettacolare, spero che altri saranno incoraggiati a rivedere le proprie esperienze.


* * *

“Giro intorno e non concludo nulla, o quasi nulla, cosa che
contraddirebbe la mia prospettiva. Il lettore o la lettrice avranno
sempre la sua parte da giocare, come me. Cerco meno a esporre un
motive o un pensiero che a condurti, lettore, nell’atmosfera di questo
motivo o di questo pensiero — affinché proseguiate il vostro volo.”

(Whitman: A Backward Glance O’er Travel’ed Roads)
[Un’occhiata alle spalle sulla strada fatta]

 



NOTE

1. Brevemente: Nel suo articolo del Village Voice e nel suo libro posteriore, Lipstick Traces, Marcus si riferisce ai situazionisti esteticamente, come uno spettatore affascinato. Nonostante la sua ammirazione per le loro idee estremiste, mostra poco interesse per le tattiche e le forme organizzative accuratamente calcolate con le quali provavano a mettere queste idee in pratica, invece di “esprimerle” impulsivamente come i suoi altri eroi, i dadaisti ed i punks. Il suo modo impressionista e personale di rievocare i situazionisti è più illuminante degli stupidi resoconti della maggior parte delle critiche culturali ed universitarie, ma come queste preferisce l’esotismo affascinante della prima fase, considerando il loro successivo periodo rivoluzionario un anacronismo imbarazzante. Tali critiche ci rassicurano invariabilmente che, indipendentemente dalle rivoluzioni che siano avvenute in passato, ora è tutto finito, e non si ripeterà mai più. Dopo avere ridicolizzato la perorazione dell’I.S. a favore dei consigli operai (l’argomento è meno semplicistico di quanto non lasci supporre), Marcus conclude, disincantato: “Se l’idea situazionista della contestazione generale si è realizzata nel maggio 1968, quest’idea ha raggiunto i suoi limiti. La teoria dell’atto esemplare (...) è andata tanto lontano quanto tale teoria o tale atto potevano permettere” — passando sotto silenzio il fatto che il movimento di maggio aveva fallito il tentativo di andare molto più lontano (vedere i passaggi citati alle pagine 53 e 57 di questo libro; I.S. n. 12, pagine 12-13; vedere le sezioni “What could have happened in May 1968” e “The ultimate showdown” in The Joy of Revolution), e non citando mai i movimenti posteriori che per certi riguardi sono andati più lontano, come il Portogallo nel 1974 o la Polonia nel 1980, né nessuna delle correnti particolari che hanno cercato di riprendere per conto loro e di sviluppare i risultati ottenuti dai situazionisti. Io stesso sono classificato bizzarramente da Marcus come uno “studente” dell’I.S., come se non ci restasse, a noialtri che viviamo oggi, che produrre tesi erudite o elegie nostalgiche sulle avventure eroiche del tempo passato.

2. Prima di continuare, occorre sottolineare che la mia pratica Zen non si riferisce ad alcuna credenza sovrannaturale. Per quanto ne sappia lo Zen non invalida la scienza né la ragione, prova semplicemente a sbarazzarci dell’abitudine all’ “intellettualizzazione” eccessiva e compulsiva. Senza una certa quantità di discernimento logico, la gente non potrebbe sopravvivere un solo giorno, neppure potrebbe comprendere a sufficienza ciò che ho appena detto per contraddirmi.
       Benché la scienza sia spesso accusata d’arroganza, è praticamente il solo campo umano che tenga conto della sua fallibilità, che si metta regolarmente alla prova e che corregga i suoi errori con metodi rigorosamente oggettivi concepiti per neutralizzare le tendenze naturali della gente verso il ragionamento erroneo, i pregiudizi inconsci e la memoria selettiva (il fatto di ricordarsi tutti i successi dimenticando tutti i fallimenti). Per verificare realmente le pretese dell’astrologia, ad esempio, occorre esaminare un campione statisticamente adeguato per verificare, ad esempio, se un numero sproporzionato di scienziati è nato sotto i segni astrologici che si presume indichino tendenze razionaliste. Simili prove sono state condotte a varie riprese senza rivelare mai la minima correlazione di questo tipo. Indagini analoghe su molti altri fenomeni cosiddetti paranormali sono state descritte nei libri di James Randi, di Martin Gardner e di altri, ed in numerosi articoli del Skeptical Inquirer (rivista del Comitato per l’indagine scientifica dei cosiddetti fenomeni paranormali). Molto spesso è stato dimostrato che tali pretese si basavano su voci che si rivelavano false, su interpretazioni erronee di eventi che si spiegavano in altro modo, su condizioni di sperimentazione insufficientemente rigorose, o semplicemente su burle o su ciarlataneria.
       Può darsi che ci sia una piccola parte di verità in qualcuno di questi fenomeni, ma sapendo quanto le persone sono disposte ad ingannarsi (e a fissarsi nelle loro credenze piuttosto di riconoscere che si erano ingannati), non ho l’intenzione di pronunciarmi prima di avere visto delle prove evidenti. Da anni, Randi e altri presentano un’offerta permanente di 100.000 dollari a chiunque potrebbe dimostrare il minimo potere paranormale in condizioni controllate scientificamente (condizioni che includono la partecipazione di illusionisti come Randi, che conoscono i trucchi usati dai ciarlatani). Centinaia di sedicenti medium, radioestesisti, astrologi, ecc. si sono provati, invano finora.



Parte 3 della versione italiana di Confessions of a Mild-Mannered Enemy of the State, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

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