BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

Due saggi critici sul
buddismo impegnato

 

Dure lezioni per il buddhismo impegnato

Eludendo la trasformazione del reale: l’impasse del buddismo impegnato

 

 


 

Dure lezioni per il buddismo impegnato


Avete preso lezioni solo da quelli che vi hanno ammirato,
        trattato con tenerezza e vi hanno lasciato la via libera?
Non avete appreso anche grandi lezioni da quelli che vi rifiutano
        e che si oppongono a voi ostinatamente o che vi trattano
        con disprezzo o che vi contendono il passaggio?

(Walt Whitman)


In piena guerra del Vietnam, Thich Nhat Hanh, accompagnato da alcuni monaci, religiosi e laici buddisti, rompeva con una tradizione apolitica vecchia di 2.500 anni fondando l’Ordine Tiep Hien, cercando in questo modo di riavvicinare le pratiche etiche e contemplative buddiste alle questioni sociali. I membri dell’ordine organizzarono delle manifestazioni contro la guerra, il sostegno ai renitenti e diversi progetti di soccorso e di assistenza sociale. Benché questo movimento sia stato presto represso nel Vietnam, Nhat Hanh ha continuato a condurre attività simili durante il suo esilio in Francia, e la nozione di “buddismo impegnato” si è diffusa ovunque. Una delle sue principali espressioni in Occidente, il Buddhist Peace Fellowship, si propone di “apportare una prospettiva buddista agli odierni movimenti pacifisti, ecologisti, di azione sociale” e “di sollevare domande di ordine ecologico, femminista, pacifista e di giustizia sociale presso i buddisti occidentali”.

L’apparizione di un buddismo impegnato è uno sviluppo salutare. Malgrado i guasti che accomuna il buddismo con tutte le religioni (superstizione, gerarchia, maschilismo, complicità con l’ordine stabilito), ha sempre avuto un cuore di penetrazione autentica, basato sulla pratica della meditazione. È questo cuore vitale, come il fatto che il buddismo generalmente non impone dei dogmi, come fanno le religioni occidentali, che gli ha permesso di radicarsi con facilità in Occidente, compresi gli ambienti più sofisticati delle differenti culture. Quelli che lottano per il cambiamento sociale potrebbero mettere a profitto l’attenzione consapevole, l’equanimità e l’autodisciplina favorita dalla pratica buddista; e non farebbe alcun male ai buddisti apolitici confrontarsi con le questioni sociali.

Però fino ad ora la coscienza sociale dei buddisti impegnati è rimasta estremamente limitata. Se hanno cominciato a riconoscere certe realtà sociali flagranti, dimostrano poca comprensione alle loro cause o alle possibili soluzioni. Per alcuni, l’impegno sociale si riduce semplicemente ad alcuni lavori caritatevoli e benevoli. Per altri, ispirati forse dalle osservazioni di Nhat Hanh sulla produzione di armi o sulla carestia del Terzo Mondo, si risolvono a non mangiare carne o a non coinvolgersi con la produzione di armamenti. Tali gesti possono avere un significato personale, ma i loro effetti reali sulla crisi mondiale sono trascurabili. Se milioni di poveri muoiono di fame nel Terzo Mondo, non è per mancanza di nutrimento, ma perché non vi sono benefici da ricavarne. Finché sarà possibile arricchirsi fabbricando armi o devastando l’ambiente, qualcuno lo farà, malgrado gli appelli morali alla buona volontà. E se certe persone coscienziose rifiutano di prendervi parte, una moltitudine di altri spingeranno per prendere il loro posto.

Altri, sentendo che tali gesti individuali non bastano, si sono avventurati in attività più “politiche”. Ma facendo questo, non hanno fatto che seguire gruppi pacifisti, ecologisti e progressisti, le cui tattiche e prospettive sono abbastanza limitate. A parte rare eccezioni, questi gruppi riten gono il sistema sociale attuale come qualcosa de ovvio, manovrando al suo interno per promuovere obiettivi particolari, spesso a spese di altre cause. Come hanno detto i situazionisti: “Le opposizioni parcellari sono come i denti delle ruote dentate, aderiscono e fanno girare la macchina, dello spettacolo, del potere”.

Alcuni buddisti impegnati si rendono conto che è opportuno superare il sistema attuale; ma, senza giungere a riconoscere fino a che punto è solidamente impiantato nella sua tendenza a perpetuarsi all’infinito, immaginano di poter modificarlo gradualmente dall’interno, urtando così contro delle contraddizioni costanti. Uno dei precetti dell’Ordine Tiep Hien dice: “Non possedete nulla che appartenga ad altri. Rispettate la proprietà privata, ma impedite ogni profitto procurato dalla sofferenza di altri esseri”. Come è possibile impedire lo sfruttamento della sofferenza se si “rispetta” la proprietà, nella misura in cui quella è l’espressione dello sfruttamento? E che fare se i proprietari rifiutano di abbandonare i loro beni pacificamente?

Se i buddisti impegnati non si sono opposti esplicitamente al sistema socio-economico e si sono limitati a cercare di alleggerire qualcuno dei suoi effetti maggiormente devastatori è per due ragioni. In primo luogo, non comprendono bene qual è la posta in gioco. Resistendo a qualsiasi analisi che sembra “seminare la divisione”, come possono sperare di comprendere un sistema fondato sulla divisione in classi e sul conflitto d’interessi? Come quasi tutti hanno piattamente accettato la versione ufficiale, secondo la quale il crollo dei regimi del capitalismo di Stato staliniani in Russia e nell’Europa dell’Est avrebbe dimostrato il carattere inevitabile della forma capitalistica occidentale.

Inoltre, come il movimento pacifista in generale, considerano che bisogna evitare la “violenza” ad ogni costo. Questa attitudine non è solamente semplicista, è ipocrita: loro stessi tacitamente fanno assegnamento su ogni sorta di violenza di Stato (esercito, polizia, prigioni) per proteggere i propri congiunti e le proprietà, e sicuramente non si sottometteranno passivamente alle condizioni contro cui rinfacciano ad altri di essersi rivoltati. In pratica, il loro pacifismo si rivela generalmente più tollerante nei confronti dell’ordine dominante che nei confronti dei suoi avversari. Gli stessi organizzatori che rifiutano i partecipanti che possono intaccare la purezza delle loro manifestazioni nonviolente, si vantano spesso per aver sviluppato delle intese amichevoli con la polizia. Non è granché sorprendente che i dissidenti che hanno avuto esperienze differenti con la polizia siano poco impressionati di fronte a tale genere di “prospettiva buddista”.

È vero che diverse forme di lotta violenta, come il terrorismo o i colpi di Stato di minoranze, sono incompatibili con il tipo di organizzazione aperta e partecipativa che è necessaria per creare una società mondiale realmente libera. Una rivoluzione antigerarchica non può essere realizzata che dall’insieme del popolo, non attraverso qualche gruppo che pretende di agire per conto loro; e una maggioranza così schiacciante non avrebbe alcun bisogno di utilizzare la forza se non per neutralizzare quegli elementi della minoranza dirigente che tenterebbero eventualmente di mantenere il potere con la violenza. Ma ogni cambiamento sociale comporta inevitabilmente degli aspetti violenti. Non sarebbe più onesto riconoscerlo, cercando di minimizzare il più possibile tale violenza?

Questo dogmatismo nonviolento di per sé sospetto diviene francamente ridicolo quando si oppone pure a ogni forma di “violenza spirituale”. Certamente non vi è nulla da ridire sul fatto di cercare di agire “senza la collera nel cuore”, evitando di essere presi nel circolo vizioso dell’odio e della vendetta. Ma in pratica, tale ideale spesso non serve che da pretesto per rifiutare ogni analisi e ogni critica penetranti, qualificandole come “colleriche” o “arroganti”. In seguito alla considerazione, certamente corretta, del fallimento del gauchisme tradizionale, i buddisti impegnati hanno concluso che ogni tattica “conflittuale” e ogni teoria “che semina la divisione” sono incaute e fuori luogo. Questo atteggiamento finisce per non tenere in alcun conto la storia delle lotte sociali, ignorando completamente un gran numero di esperienze ricche d’insegnamento (gli esperimenti anarchici di organizzazione sociale durante la rivoluzione spagnola del 1936, per esempio, o le tattiche situazioniste che hanno provocato la rivolta del maggio 1968 in Francia), non lasciando a loro che condividere le insulsaggini new age più inoffensive e promuovere azioni collettive più che tiepide.

È sorprendente che persone che sono capaci di apprezzare il vigore di certi aneddoti zen non arrivino a rendersi conto che queste tattiche di risveglio potrebbero essere messe su altri terreni. Malgrado tutte le loro evidenti differenze, vi sono analogie interessanti tra i metodi zen e quelli situazionisti: entrambi insistono sulla realizzazione delle loro idee piuttosto che su un’accettazione passiva di una specifica dottrina. Entrambi impiegano mezzi energici per scuotere le abitudini mentali, sino al rigetto di qualsiasi dialogo inutile e al rifiuto di offrire alternative positive prefabbricate. Ed entrambi sono accusati di “negatività”.

Un vecchio detto zen dice: “Se incontri il Buddha, uccidilo”. I buddisti impegnati sono riusciti a “uccidere” Thich Nhat Hanh nella loro mente? Oppure sono ancora attaccati alla sua immagine, affascinati dalla sua mistica, consumando passivamente le sue opere e accettando i suoi pareri senza spirito critico? Nhat Hanh ha un bell’essere una persona meravigliosa e i suoi scritti hanno un bell’essere ispiranti e illuminanti sotto diversi aspetti: la sua analisi sociale resta ingenua. Se sembra radicale, non è che in confronto ad altri buddisti che, in maggioranza, sono ancora più ingenui. Molti fra i suoi ammiratori resteranno urtati, fors’anche scandalizzati, di poter pretendere di criticare un personaggio di simile santità, cercando di negare valore a questo testo, classificandolo come la manifestazione di un’ideologia gauchiste violenta e bizzarra, supponendo (a torto) che è stato scritto da qualcuno che non ha alcuna esperienza della meditazione buddista.

Altri potrebbero riconoscere la pertinenza di alcune di queste osservazioni, ma domanderanno subito: “C’è un’alternativa pratica e costruttiva, o non fai altro che criticare? Che proponi di fare?” Non c’è bisogno di essere capomastri per mostrare che il tetto perde. Se questa critica riuscirà a stimolare qualcuno a riflettere, a vedere più in là di qualche illusione, finanche a elaborare da sé nuovi progetti, non è già un risultato veramente pratico? Quante azioni costruttive ottengono altrettanto?

Circa la domanda su ciò che si dovrebbe fare: la cosa più importante è smettere di aspettare che altri dicano ciò che è bene fare. Meglio fare propri errori che seguire il maestro più saggio. Non solo è più interessante, ma è anche più efficace fare esperienze dirette, per quanto possano essere modeste, che essere un numero in un reggimento di numeri. È bene contestare ogni gerarchia, ma prima di tutto quelle in cui si è direttamente implicati.

Una delle scritte del maggio 1968 diceva: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Fin quando restano nell’ambito dell’ordine stabilito, le “alternative costruttive” sono quanto meno limitate, provvisorie, ambigue; in questo modo tendono ad essere recuperate e divenire una parte del problema. Sicuramente siamo obbligati a occuparci di certe urgenze come la guerra o le minacce contro l’ambiente. Ma se lo facciamo accettando i termini del sistema, ci limitiamo solamente a reagire verso ogni nuovo problema che produce, senza mai trasformarlo dalle fondamenta. Non potremo uscire da una vita ridotta alla semplice sopravvivenza che rifiutando il suo ricatto, contestando un’organizzazione sociale che, in ultima analisi, reprime ogni possibilità di vita. I movimenti che si limitano a semplici proteste difensive e timide non raggiungeranno altro che il povero obiettivo di garantire la semplice sopravvivenza.

BUREAU OF PUBLIC SECRETS
Ottobre 1993

 



Eludendo la trasformazione del reale

L'impasse del buddismo impegnato

 

“Errore molto popolare: avere il coraggio delle proprie opinioni:
i tratta piuttosto di avere il coraggio di attaccare le proprie opinioni!”

(Friedrich Nietzsche)


Nel 1993 ho scritto “Dure lezioni per il buddismo impegnato”, un testo nel quale definivo l’apparizione del buddismo impegnato come uno sviluppo salutare, pur segnalando alcuni problemi. Alcune migliaia di esemplari sono stati distribuiti a Berkeley e a San Francisco nel corso di apparizioni di Thich Nhat Hahn o inviati a gruppi buddisti impegnati in giro per il mondo. Successivamente, io e i miei amici abbiamo continuato a diffonderlo durante interventi locali di Gary Snyder, di Robert Aitken, del Dalai Lama, ecc. È stato riprodotto diverse volte, anche su Turning Wheel, la rivista del Buddhist Peace Fellowship, e ora si trova on line sul sito del Bureau of Public Secrets (www.bopsecrets.org).

Nonostante le reazioni negative prevedibili (“Come osate criticare Thich Nhat Hanh?”), ed anche alcuni tentativi di impedire la circolazione del testo, la grande maggioranza delle reazioni è stata positiva (“Era ora che qualcuno sollevasse queste domande!”). Sfortunatamente, la maggior parte di queste reazioni positive non sembrano aver avuto sviluppi pratici. Benché numerose persone, tra cui molti autori e membri del consiglio del Buddhist Peace Fellowship, mi abbiano informato privatamente che erano d’accordo con me, i loro scritti ulteriori non hanno fatto alcuna menzione al mio testo ed né hanno discusso pubblicamente le questioni che ho posto. Per contro, spero che le osservazioni seguenti suscitino un pubblico dibattito.

L’obiettivo dichiarato del Buddhist Peace Fellowship è quello di “apportare una prospettiva buddista ai movimenti pacifisti, ecologisti e d’azione sociale odierni” e “sollevare domande d’ordine ecologico, femminista, pacifista e di giustizia sociale presso i buddisti occidentali”. Nell’accezione più stretta, suppongo che il Buddhist Peace Fellowship abbia ben sollevato queste domande durante i vent’anni della sua esistenza. Ma non penso che i fondatori, né la maggior parte dei successivi aderenti, abbiano avuto l’intenzione di limitarsi a un obiettivo così poco ambizioso, come quello di rendere i buddisti semplicemente coscienti delle diverse forme di oppressione sociale — realtà di cui quasi tutti sono perfettamente coscienti, pur senza avere una soluzione adeguata. Non credo di sbagliarmi affermando che l’ambizione del Buddhist Peace Fellowship possa così venire riassunto:

1) il buddismo può contribuire ai movimenti sociali radicali;

2) i buddisti hanno ugualmente delle lezioni da imparare da tali movimenti.

Sono d’accordo con la prima proposizione (sennò non mi darei la pena di formulare queste critiche), ma quello che vorrei sottolineare qui è che i buddisti impegnati hanno nella maggior parte ignorato le seconda proposizione. Benché lascino intendere costantemente che gli attivisti sociali farebbero bene ad adottare la meditazione, l’attenzione consapevole, la compassione, la nonviolenza e altre pratiche buddiste, è raro che essi stessi ammettano di avere da imparare dai non-buddisti — se escludiamo le lodi prevedibili indirizzate ad alcuni personaggi come Gandhi o Martin Luther King, in cui l’attivismo d’ispirazione spirituale non fa altro che confermare le loro concezioni di partenza. Se si azzardano di quando in quando nel dominio profano, non è altro che per fare eco alle più ordinarie idee progressiste di qualche commentatore alla moda, come Ralph Nader, Jerry Brown, Jeremy Rifkin o E. F. Schumacher, nessuno dei quali presenta una sfida radicale all’ordine sociale dominante, anche se le denunce delle assurdità più flagranti sono in genere pertinenti.

Questi due aspetti sono in correlazione. Poiché i buddisti impegnati non si sono dati la pena di studiare seriamente i movimenti veramente radicali, tali movimenti sono rimasti ugualmente indifferenti ai consigli provenienti dal buddismo impegnato (supponendo che siano perlomeno coscienti della sua esistenza, e il più delle volte non lo è).

Nel 1992, un certo numero di buddisti di diversi paesi, apparentemente scontenti del livello di dibattito su queste domande all’interno del Buddhist Peace Fellowship e dell’International Network of Engaged Buddhists, organizzarono un Gruppo buddista per l’analisi sociale. Più recentemente, alcuni di loro hanno formato un gruppo internet di “riflessione buddista” chiamato Think Sangha. La prima espressione pubblica ragguardevole su questo sviluppo apparentemente promettente è un libro intitolato Entering the Realm of Reality: Towards Dhammic Societies, un’antologia curata da Jonathan Watts, Alan Senauke e Santikaro Bhikku.

Nella loro introduzione i curatori evocano la necessità di introdurre nuove prospettive, ma cadono rapidamente in un miopia pretenziosa:

Abbiamo bisogno urgente di visioni e di piani. Alcuni di noi sono l’avanguardia del cambiamento sociale, lavorando con i rifugiati, i prigionieri, i senzatetto e le vittime dell’AIDS. Altri sono impegnati in campagne per l’abolizione delle armi nucleari, delle mine antiuomo o delle armi esplosive, questioni d’importanza differente ma provenienti tutte dalla stessa sorgente: paura e odio. Altri ancora proteggono il nostro ambiente fragile, schierandosi in difesa degli alberi, delle acque e del grande catena di tutti gli esseri. [p. 9]

In realtà, ben lontane dall’essere “l’avanguardia del cambiamento sociale”, la maggior parte di queste attività non hanno nulla a che vedere con tale cambiamento sociale. Quelle che sono state elencate all’inizio sono semplicemente delle forme di servizio sociale; le altre, delle reazioni difensive contro alcuni fra gli abusi più evidenti del sistema sociale. Questo non implica che tali attività non siano lodabili. Si tratta semplicemente di sapere bene ciò che si fa e ciò che non si fa.

Le domande di strutture sociali hanno bisogno di essere affrontate in maniera socialmente organizzata. I grandi slanci individuali non risponderanno a questi problemi. Lasciamoli ai film di cow-boy. Creiamo comunità ad ogni scala, laiche o monastiche, da Dawn Kiam a Suan Mokkh nel Siam e dal Plum Village in Francia fino a Sarvodaya, la vasta rete di comunità cooperative dello Sri Lanka. [pp. 9-10]

Il fatto che le questioni sociali debbano essere regolate in fin dei conti collettivamente non implica che il primo passo in questa direzione stia nel creare comunità. La realtà è che la maggior parte delle pretese comunità alternative degli ultimi due secoli (colonie utopiche, gruppi collettivi, cooperative, gruppi di affinità, ecc.) sono naufragate. Quando si sono affermate, hanno sempre finito per essere recuperate, rinforzando di fatto il sistema che volevano oltrepassare. Uno degli articoli del libro riconosce gli insuccessi di Sarvodaya (pp. 256-260), ammettendo che tali organizzazioni svolgono principalmente una funzione di soluzioni temporanee nelle zone trascurate dallo sviluppo capitalista e che sono in genere abbandonate non appena un tale sviluppo diventa accessibile a loro.

Quando le persone sono malate, quando hanno fame o quando sono piene di acredine e di odio, non basta consigliare loro la rinuncia a sé o mostrare come meditare. (...) Il nostro compito difficile è innanzitutto comprendere la natura della relazione complessa che intratteniamo con la loro sofferenza, poi cercare di cogliere insieme le condizioni fondamentali della nostra comune identità per una liberazione collettiva. Allora, verrà forse il momento per insegnare la meditazione. [p. 10]

È detto bene, salvo che è discutibile la priorità assegnata alla “relazione complessa che intratteniamo con la sofferenza”. In pratica, tali esortazioni esistenzialiste e moralizzatrici, del tipo “siamo-tutti-in-parte-colpevoli”, tendono ad occultare le vere possibilità. Come altri, i buddisti impegnati perdono molto tempo a colpevolizzarsi per la supposta complicità con dei mali provenienti da un sistema sociale che possono a malapena influenzare, però trascurano di mettere in causa quelle mancanze personali che potrebbero superare se solamente dimostrassero un po’ d’iniziativa (come la dipendenza passiva nei confronti dei leader o la loro ignoranza della storia radicale).

Senza un’analisi sociale buddista, rischiamo di non sapere dove dirigere la nostra attenzione e la nostra energia. Senza una visione sociale aperta e flessibile non sappiamo dove andiamo. [p. 11]

Un’analisi sociale è evidentemente essenziale, ma i curatori presumono che debba essere buddista. Un’analisi veramente aperta e flessibile, che esamina i problemi sotto tutti gli aspetti senza idee preconcette, potrebbe condurre a conclusioni che contraddicono alcuni aspetti del buddismo. Benché si possa accreditare ai buddisti impegnati di avere attirato l’attenzione su episodi vergognosi della storia buddista (un eccellente esempio recente è il libro Zen alla guerra di Brian Victoria), loro continuano ancora ad accettare il buddismo in blocco come in sé buono essendo il suo unico problema che talvolta verrebbe (non si sa bene perché) corrotto o male interpretato. Allo stesso modo dei cristiani con la Bibbia, si dedicano a elaborate contorsioni per far entrare il loro partito preso etico e politico in un quadro buddista, cercando quelle citazioni scritturali fuori contesto che, con un minimo sforzo, potrebbero accordarsi con le loro vedute, ignorando in questo modo tutto ciò che potrebbe contraddirli. Lasciano così intendere che il buddismo autentico (supposto che si possa identificarlo) è già la soluzione per ogni problema.

Nell’introduzione, per esempio, gli autori dichiarano senza alcuna esitazione che “il nostro egocentrismo violento, e per estensione le tendenze egocentriche della società, sono la radice dei nostri problemi” (p. 8). Si può riconoscere che un egocentrismo ristretto e poco illuminato può creare o esacerbare i problemi; ma il dogmatismo irriflessivo di questi autori gli fa dimenticare che le persone sono rimaste oppresse perché sono state condizionate a subire un sistema gerarchico senza essere sufficientemente “egocentrici” per rivendicare condizioni più eque. L’idea che dovremmo “limitare le nostre speranze”, essere più altruisti o anche pronti a sacrificarci, torna ad accettare questa truffa sociale, rigettando la responsabilità di un sistema sfruttatore e assurdo sulle sue vittime, “troppo avide”.

Il libro è pieno di queste confusioni. Le “analisi sociali” sono generalmente ingenue e riflettono spesso un dualismo piatto (Est contro Ovest, Nord contro Sud, globalizzazione contro comunità locali, modernizzazione contro costumi tradizionali, consumismo contro astinenza). I complessi processi dialettici del sistema sono ridotti a termini quantitativi semplicisti: “il problema fondamentale è quello della scala” (p. 230). “Piccolo è la parola d’ordine; gigantesco orrido” (p. 9). Peraltro gli autori sembrano accettare l’inevitabilità delle enormi istituzioni in gioco. Non essendo mai contemplata la prospettiva di un rovesciamento, la solo opzione sembra essere quella di convincere il sistema a riformarsi da sé. “Quando saremo più desti, potremo unirci ad altri per fare pressione sui governi affinché cambino le loro politiche” (p. 232). Le grandi società commerciali devono essere rese più “più responsabili”; riduzioni d’imposta per le cooperative e le piccole imprese condurranno “al pieno impiego e a mercati veramente liberi” (p. 236). Dirigenti buddisti coreani vengono lodati per aver consigliato “i ricchi e i padroni ad essere più generosi con i poveri ed i lavoratori, e per aver domandato al governo di migliorare il sistema di assistenza sociale e proteggere i diritti umani” (p. 203).

All’infuori della fantasia utopica di Ken Jones, di una banalità insipida, e alcune congetture assai vaghe nell’articolo di Santikaro intorno a ciò che costituirebbe un “socialismo dharmico”, il libro contiene poche discussioni su un’eventuale società alternativa. Nessuno dei collaboratori dimostra la minima seria nozione sul modo in cui potremmo arrivare a una tale società. Jones immagina la sua società utopica inaugurata da un “Grande Mutamento” giunto, non si sa bene come, dopo che “un nuovo genere di persone è entrato in politica” (pp. 282, 284). Aitken considera che “la nostra rete umana diventa sempre più attrattiva quanto più il potere stabilito continua a disgregarsi”, ma ammette che quest’ultimo “potrebbe sprofondare trascinando tutto il reste con sé” (pp. 7, 9). La maggior parte degli altri collaboratori di quest’opera non affronta per nulla la questione. Tutti sembrano sperare che il sistema dominante sparirà da sé quando finalmente saremo capaci di sviluppare una rete sufficientemente estesa di Organizzazioni Non Governative, di comunità alternative e di generali buone vibrazioni. Nel libro c’è poco più di una menzione dei movimenti che hanno realmente contestato il sistema. Gli autori presumono, così pare, che tali movimenti non siano pertinenti perché troppo “violenti” o troppo “materialisti” o troppo “collerici”; o più semplicemente perché, fino ad ora, hanno fallito (ma il buddismo è riuscito?).

Il buddismo considera l’ignoranza la radice fondamentale dei nostri problemi. Il primo passo per superare l’ignoranza è divenirne consapevoli, essere coscienti di ciò che non sappiamo. I buddisti impegnati cosa sanno veramente di Marx (in opposizione al “comunismo” pseudo-marxista)? O su anarchici come Piotr Kropotkin e Emma Goldman? O su visionari utopici come Charles Fourier e William Morris? O sulle critiche socio-psicologiche come quelle di Wilhelm Reich e Paul Goodman? O sui situazionisti come Guy Debord e Raoul Vaneigem? O sulle rivoluzioni popolari e anti-autoritarie, come quelle di Spagna nel 1936, di Francia e Cecoslovacchia nel 1968, del Portogallo nel 1974, della Polonia del 1980? O di avvenimenti più recenti come l’occupazione di piazza Tienanmen o la rivolta dei disoccupati in Francia? (“Non vogliamo il pieno impiego, ma una vita piena!”). Quanti buddisti impegnati hanno esplorato con serietà almeno uno di questi movimenti? Quanti ne conoscono l’esistenza?

Non è sufficiente rispondere: “Bene, parlamene, ho cinque minuti di tempo.” I buddisti dimostrano spesso un’assiduità esemplare nei loro studi e nelle pratiche spirituali, ma, cosa curiosa, quando si tratta di questioni sociali, sembrano credere che una conoscenza a livello di “Reader’s Digest” sia sufficiente. Da secoli milioni di persone hanno cercato di trasformare radicalmente la società, utilizzando varie tattiche. È un processo vasto e complesso che si è concluso anche con disastri e impasse, ma che ha ugualmente prodotto un certo numero di scoperte promettenti. Un esame accurato è necessario per discernere le tattiche erronee da quelle che potrebbero essere utili. Come non è possibile pretendere di capire il buddismo o lo zen leggendo un solo articolo, non si può sperare di cogliere veramente il ventaglio di possibilità radicali senza un minimo di esplorazione e di sperimentazione personale.

Non si tratta solamente di informarsi su ciò che proviene da altri, da altre epoche e ambiti, ma anche guardare dappresso la nostra situazione attuale. L’adorazione acritica di persone in vista del buddismo come Thich Nhat Hanh o “Sua Santità” il Dalai Lama è bastevolmente puerile quando si limita al livello puramente “spirituale”; ma quando si estende al piano socio-politico diventa semplicemente reazionaria. Anche se le manipolazioni gerarchiche non costituiscono un problema importante fra i buddisti impegnati più indipendenti, e anche se i loro gruppi sono spesso sufficientemente democratici e partecipativi, resta nondimeno un problema più sottile. Quelli che si trovano in ruoli di responsabilità sembrano relativamente liberi dal desiderio di mantenere tali posizioni, ma restano generalmente molto attaccati all’idea di proteggere i loro sangha, le comunità e le organizzazioni che hanno costruito nel corso degli anni. In quanto esitano dall’affrontare le domande compromettenti, le tendenze diverse non maturano in rivalità salutari. Si cerca di risolvere i conflitti attraverso la “riconciliazione” (che, come ha ben osservato Saul Alinsky, implica il più delle volte che la gente al vertice conserva il potere e quelli in fondo alla scala si rassegnano ad accettare tale condizione), quietando e neutralizzando così quelli che hanno sollevato il problema. (“È un punto di vista estremamente interessante! Ti ringraziamo di averci fatto partecipi. Unisciti a noi per lavorare su queste domande.”)

Quando questi tentativi di recupero non funzionano, le critiche come le mie sono spesso respinte e qualificate come arroganti e sprezzanti. Riconosco di non avere una grande opinione di buona parte delle idee e delle tattiche dei buddisti impegnati. Ma ho sufficiente rispetto per le persone in modo da rivolgermi a loro con sincerità. Mi sembra che le persone veramente sprezzanti sono quelle che hanno posizioni influenti e che evitano di discutere pubblicamente di questioni importanti con il motivo che il pubblico non sarebbe in condizione di assimilarle, trovandole disturbanti e scoraggianti. A proposito dell’arroganza, non si trova piuttosto in quelli che pretendono di introdurre nuove prospettive in movimenti radicali ignorando del tutto e con spregio la storia di tali movimenti?

KEN KNABB
Luglio 1999

 


Versione italiana di Strong Lessons for Engaged Buddhists e Evading the Transformation of Reality, traduzione dall’inglese di Federico Battistutta.

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