BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

Confessioni di un
garbato nemico dello stato

 

Parte 2 (1969-1977)

Come diventai situazionista
1044
Contradiction
Un nuovo inizio
Il gruppo “Notice”
La scioglimento di una comunità

 

 



Come diventai situazionista

Leggendo alcuni recenti testi anarchici, Ron ed io trovammo menzionata a più riprese l’Internazionale Situazionista (I.S.), un piccolo gruppo di una certa notorietà che aveva giocato un ruolo chiave nella catalisi della rivolta del Maggio 1968. Mi ricordavo vagamente di aver dato un’occhiata ad alcuni testi situazionisti l’anno precedente, ma a quell’epoca li avevo riposti sugli scaffali. Un breve colpo d’occhio mi aveva dato l’impressione che si trattasse soltanto di un’altra variante dei sistemi ideologici europei (marxismo, surrealismo, esistenzialismo, ecc.) che sembravano dei giocattoli vecchi dopo gli psichedelici. Nel dicembre del 1969 ci imbattemmo ancora una volta in alcuni opuscoli situazionisti, in una libreria locale, e quella volta naturalmente li leggemmo.

Fummo immediatamente colpiti dalla grande differenza rispetto allo stile semplicistico e propagandistico della maggior parte degli scritti anarchici. Lo stile situazionista ci sembrava molto strano e tortuoso, ma anche estremamente provocante, concepito evidentemente più per scardinare le abitudini e le illusioni della gente che per convertirla a qualche, più o meno passiva, “prospettiva libertaria”. Dapprima restammo perplessi, ma rileggendo e discutendo questi testi cominciammo a poco a poco a comprendere come tutto fosse collegato. I situazionisti sembravano essere l’anello mancante tra i differenti aspetti della rivolta. Mirando a una rivoluzione sociale di una radicalità che la maggior parte dei gauchistes non immaginava neppure, attaccavano nello stesso tempo le assurdità della cultura moderna e la noia della vita quotidiana, ripartendo da dove i dadaisti e i surrealisti si erano fermati. Totalmente iconoclasti, rifiutavano ogni ideologia — compreso il marxismo, l’anarchismo e lo stesso “situazionismo” — adottando ed adattando ogni idea che trovassero pertinente. Mentre conservavano la tradizionale opposizione anarchica verso lo Stato, avevano sviluppato un’analisi più comprensiva della società moderna, una pratica organizzativa più rigorosamente antigerarchica e conducevano un attacco più coerente contro i mezzi che il sistema si era dato per trasformare la gente in sostenitori passivi e in spettatori. (Il loro nome derivava dal loro obbiettivo originario, quello di creare “situazioni” aperte e partecipative, in opposizione alle opere d’arte inchiodate e appese). Infine, e non è la cosa meno importante, rifiutavano energicamente la “politica del senso di colpa”, che pretende di basare la rivoluzione sul sacrificio di sé, l’autoflagellazione o il culto dei martiri.

Due mesi più tardi, Ron ed io scoprimmo alcuni volantini in stile situazionista scritti da un gruppo locale dal nome affascinante: Consiglio per l’Eruzione del Meraviglioso (CEM). Gli scrivemmo per proporgli un incontro. Accettarono e l’indomani incontrammo due di loro. Essi risposero brevemente ma lucidamente alle nostre domande, sottoponendo a una critica caustica gran parte dei nostri fumosi progetti, respingendo il nostro anarchismo come un’ideologia di più che ci impediva di fare una qualsiasi cosa significativa. Pronti ad esprimere il loro disprezzo verso praticamente tutto quello che passava per radicale, sapevano di cosa stavano parlando, volevano dire esattamente quello che dicevano e non avevano l’aria di scherzare. Tuttavia era evidente che malgrado la loro serietà si divertissero. La loro pratica sovversiva, che consisteva principalmente in interventi critici in diverse situazioni, sembrava unire un calcolo attento a una squisita maliziosità. Ci fecero capire presto che non avevano alcuna intenzione di perdere il loro tempo in sforzi supplementari per convincerci e se ne andarono.

Restammo sbalorditi ma anche stimolati. Anche se non eravamo sicuri di essere d’accordo con loro su tutti i punti, la loro autonomia era già una sfida pratica. Se loro potevano distribuire dei volantini che esprimevano i loro punti di vista, perchè noi non avremmo potuto fare lo stesso?

Siamo tornati a casa di Ron, abbiamo fumato un joint, poi entrambi abbiamo scritto un volantino. Il mio era un collage di slogans anarchici e situazionisti seguito da una lista di libri raccomandati, il suo era una satira contro il modo in cui la rivoluzione si stava trasformando in banale spettacolo. Ne abbiamo ciclostilati 1500 esemplari e li abbiamo distribuiti in Telegraph Avenue, vicino all’Università. Anche se quest’azione era abbastanza astratta, il solo fatto di creare qualcosa e di pubblicarla era per noi un eccitante passo in avanti.

Nel corso dei due mesi successivi realizzammo altri volantini sperimentali. Ne scrissi uno sul perché la gente non deve mai cedere il suo potere ai capi, che ho distribuito in occasione della proiezione del film Viva Zapata e misi insieme un fumetto sulla natura irriflessa e ritualistica dei combattimenti di strada a Berkley. Ron scrisse una recensione di Utopia e socialismo di M. Buber e la critica di un insulso intervento effettuato da qualcuno dei nostri conoscenti anarchici, durante un corso universitario. Tutte queste azioni erano ancora rudimentali, ma per le diverse reazioni che provocavano, imparavamo a poco a poco ad intervenire pubblicamente. C’era una progressione verso una sempre maggiore incisività e criticità.

Facendo questo cercavamo di trovare un compromesso valido fra il nostro milieu controculturale rilassato e l’estremismo rigoroso dei situazionisti (almeno come noi piuttosto confusamente lo comprendevamo). Facemmo numerose discussioni con molti dei nostri amici per incitarli a qualche sperimentazione radicale, ma anche se certi erano vagamente interessati dal nostro “nuovo trip”, praticamente nessuno di loro partecipò a qualche iniziativa. Sebbene non portassero a niente, questi confronti ci hanno almeno consentito di chiarirci le idee. Ci eravamo a un tal punto inoltrati nelle nostre nuove avventure, che avevamo ben poco interesse a prolungare delle relazioni secondo i vecchi termini.

Quanto agli anarchici che frequentavamo, per quanto non avessero rivolto nessuna richiesta verso di noi, non intendevano accettarne nessuna da parte nostra. Quando gli facemmo qualche critica moderata (ben più moderata di quelle che il CEM fece a noi) essi si posero sulla difensiva. Cominciammo a renderci conto che, malgrado alcuni aspetti pertinenti, l’anarchismo funzionava nella stessa maniera di tutte le altre ideologie, con le sue gallerie di eroi e di idee feticizzate. Dopo svariati mesi di discussioni e di gruppi di studio, il gruppo si era mostrato incapace di portare a termine nessun progetto di ristampa, e meno ancora di aprire una libreria. Ne abbiamo concluso che se volevamo fare qualcosa era necessario che agissimo da soli e che gli interventi autonomi avrebbero avuto più possibilità di toccare la sensibiltà della gente della diffusione di qualche copia in più dei classici dell’anarchismo.

Vedevamo raramente il CEM, ma eravamo al corrente dei loro interventi deliziosamente scandalosi, la cui combinazione della tattica situazionista del détournement con una punta di influenza surrealista e di William Burroughs era teorizzata nel loro pamphlet On Wielding the Subversive Scalpel [Sull’uso dello scalpello sovversivo]. Tra l’altro avevano caricaturizzato il ruolo spettacolare del militante sacrificale con un volantino che mostrava la crocifissione degli “Otto di Chicago”. Andavano di porta in porta, in un’asettica periferia, vestiti in completo, a distribuire volantini che esortavano gli abitanti ad abbandonare tutto per cercare la vera vita. Interruppero un’apparizione locale di Godard con dei pomodori marci e dei volantini bilingue. Distribuivano pacchetti di trading cards che rappresentavano personaggi stereotipati (dirigenti, mendicanti, negozianti hip, ecc.) e “Grandi Momenti nel Vuoto” (un imbottigliamento nel traffico, la corsa al supermercato, guardare la TV).

Incontrammo anche gli emissari di un gruppo del Massachussetts ugualmente influenzato dai situazionisti: il Consiglio per l’Esistenza Cosciente (CCE). Il CCE era un gruppo meno divertente e meno surrealista del CEM, ma altrettanto intenso, intransigente ed iconoclasta. Il loro esempio raddoppiò la sfida che ci aveva lanciato il CEM di mettere in questione tutto il nostro passato, e di rovesciare tutti i nostri idoli.

Uno dei pochi eroi che mi era rimasto era Gary Snyder. Volevo sì ammettere che la maggior parte dei leaders del movimento e della controcultura erano dei manipolatori gerarchici o dei confusionisti spettacolari, ma Snyder mi sembrava quasi degno di ammirazione. Ad ogni modo, condividevo l’idea diffusa, ma falsa, secondo cui per avere il diritto di criticare qualcuno dovessi essere migliore di lui, e non pensavo di potermi comparare a Snyder.

Un giorno seppi che sarebbe venuto a Berkeley per leggere qualche sua poesia. Prima, questo sarebbe stato per me uno dei più grandi eventi dell’anno, ma adesso ero incerto. Pensavo ancora che un tale evento era una cosa buona? O era “spettacolare”, e contribuiva a mantenere la passività della gente, la loro presunzione, il loro culto delle stars? Dopo alcune riflessioni decisi che il modo più conveniente di regolare la questione sarebbe stato quello di redigere un volantino e di distribuirlo in quell’occasione — questo avrebbe provocato nello stesso tempo le altre persone che erano coinvolte La scadenza era ugualmente una sfida, la lettura avrebbe avuto luogo dopo tre giorni.

All’inizio ho cominciato con alcune critiche piuttosto moderate. Ma più consideravo l’intera situazione, più la mettevo radicalmente in questione. Fino a quel momento avevo accettato Snyder interamente, come una sorta di mercato globale spettacolare: la sua vita e i suoi scritti “mi ispiravano”, ma solo in modo vago e generale. Ora, mi rendevo conto che se diceva qualcosa che ritenevo utile, bisognava metterla in pratica. E se diceva qualcosa che ritenevo sbagliata, bisognava mostrarla. Si trattava di rivolgere qualcuna delle sue note più valide su altri aspetti della sua pratica che erano insufficienti.

Ogni piccolo passo in avanti apriva la strada a quelli successivi. Mi era dispiaciuto “rovinare” la mia preziosa foto di Snyder con i suoi amici, tagliandola e incollandola sul volantino, ma una volta che l’avevo “deturnata” aggiungendovi dei fumetti, il mio feticismo era scomparso. Adesso non era che un’immagine che m’interessava soltanto perché potevo utilizzarla per scardinare il feticismo altrui. Ridevo di me stesso accorgendomi delle mie resistenze psicologiche, come ridevo immaginando la perplessità in cui questo o quell’aspetto del volantino avrebbe gettato la gente che lo avesse letto. Importava poco che sembrasse bizzarro o maldestro quello che veniva fuori. Creavo un genere che era mio, e l’unica regola era il desiderio di arrivare fino alla fine di questa situazione e di metterla in pratica nella maniera più provocatoria possibile.

Terminai il volantino poco prima della lettura pubblica e ne feci stampare un centinaio di esemplari. Avvicinandomi alla sala, stringendoli nervosamente nelle mani, esitavo. Questo progetto non era troppo estremo? Come osavo attaccare Snyder, in quel modo? Lui stesso era più o meno anarchico; non cercava di reclutare nessuno, non chiedeva denaro. Non stavo esagerando? Decisi di sedermi un momento tra il pubblico per rendermi conto dell’ambiente.

C’erano varie centinaia di persone. Snyder cominciò dicendo che prima di passare alla poesia voleva pronunciare “qualche parola sulla rivoluzione”. Fece alcune considerazioni un po’ vaghe ma non malvagie. Quando finì, gli spettatori applaudirono.

Era abbastanza per decidermi. Niente avrebbe potuto rendere più evidente la natura fondamentalmente spettacolare dell’avvenimento. Gli applausi erano la prova eclatante che le parole di Snyder non erano fatte per essere messe in pratica, ma servivano soltanto come particolari piccanti per un’eccitazione passiva (immaginavo gli spettatori che rientravano a casa dire agli amici: “Non ha soltanto letto molte belle poesie, ma ha anche detto delle cose formidabili sulla rivoluzione!”). Ero indignato per la situazione. Gli aspetti più ingiuriosi del mio volantino erano decisamente appropriati. Li tirai fuori e li gettai tra il pubblico e me ne uscii. Non provavo più alcun interesse per quello che Snyder poteva ancora dire, e non volevo che la perentorietà del mio atto si diluisse in un dibattito con gli spettatori sulle alternative che avevo da proporre. Era un problema loro.

La gente si domanda talvolta se i situazionisti “facciano” effettivamente qualcosa o se non facciano “altro che scrivere”. Avevo avuto anch’io questa falsa opinione. Fino a quel momento ero convinto di non sapere che fare, ma nell’attesa poteva essere utile scrivere il volantino per chiarire le cose. Ma è stato soltanto dopo che mi sono reso conto che avevo fatto qualcosa. Se una critica riesce ad incitare almeno alcune persone a riflettere meglio, a dissipare un certo numero di illusioni, a riconsiderare delle pratiche, o, ancora meglio, ad avviare nuove esperienze, questo è già un effetto pratico, valido e concreto. Quante “azioni” ottengono lo stesso risultato? Avevo compreso inoltre che l’insistenza sul fatto di dover essere “costruttivo” non era che una mistificazione che proibiva alla gente di affrontare le reali condizioni della propria vita; e che una critica (contrariamente a una farisaica condanna morale) non implica necessariamente la sensazione della propria superiorità. Se fosse per noi necessario essere migliori degli altri per criticarli, i “migliori” non sarebbero mai stati criticati (e i gerarchi tendono a porre i problemi in una maniera che rafforza la loro posizione dominante). Poco importa il talento di Snyder, la sua saggezza o le sue buone intenzioni. Se il fine della poesia è di “cambiare la vita”, c’era più poesia nel mio atto che in non so quale poesia che avrebbe poteuto leggere quella sera.

Sono il primo ad ammettere che quel particolare intervento fu inutile e non ebbe probabilmente alcun effetto notevole su nessuno, se non su me stesso. Benché il volantino fosse abbastanza chiaro attaccando il consumo passivo della cultura, la prospettiva sociale sulla quale l’attacco era basato era solo vagamente delineata (l’ Ode on the Absence of Real Poetry [Ode sull’assenza della vera poesia] che ho pubblicato qualche mese più tardi era più esplicita a questo riguardo, ma era anche molto più pedante).

La mia azione era stata un fiasco anche come intervento. Avevo cercato invano qualcosa come un balcone da cui poter lanciare i volantini sull’uditorio, per creare una situazione di “massa critica” in cui tutti si sarebbero incuriositi sufficientemente perché si mettessero a leggerli nello stesso momento. Avrei potuto ottenere lo stesso risultato in un modo un po’ meno drammatico percorrendo la sala in mezzo al pubblico. Oggi troverei del tutto naturale fare così, ma a quell’epoca ero un novizio in questo gioco e non ebbi il coraggio di farlo. Il risultato della mia più timida distribuzione fu che soltanto una parte del pubblico ebbe il volantino tra le mani, e come fui informato più tardi da quegli amici che erano presenti là quella sera, la lettura continuò dopo una pausa di qualche secondo; il resto del pubblico avrà creduto probabilmente che si trattava del solito volantino sui Black Studies o sulla guerra del Vietnam.

Ma qualunque sia l’effetto della mia azione sul pubblico, fu chiarificante per me. Fuggendo dalla sala mi sentivo come se fossi ritornato bambino, emozionato come uno scolaro che sta per fare uno scherzo. Ma la vera comprensione della prospettiva situazionista parte da quel momento. Avevo già imparato molte cose dalla lettura dei testi situazionisti, dall’esempio del CEM (che dopo aver criticato vivamente le mie precedenti confusioni, ebbe la saggezza di lasciarmi solo sulle mie prossime mosse), e dalle mie sperimentazioni durante i mesi precedenti. Ma il fatto di aver strappato la mia passività e il mio culto delle stars ebbe un grandissimo effetto liberatorio. Il fatto di aver scelto il bersaglio più difficile per me ha fatto di questa esperienza la svolta più importante della mia vita.

I membri del CEM erano consapevoli della mia ammirazione per Snyder. Quando gli mostrai il volantino, un po’ più tardi, uno di loro disse: “Ah! Vedo che tu hai sovvertito te stesso altrettanto quanto gli altri!” Tutti noi abbiamo sorriso.


1044

Il CEM si sciolse nel giugno 1970. Il gruppo era attraversato da molte tendenze, alcuni dei suoi membri non erano autonomi o impegnati quanto gli altri, ed in ogni caso, le loro contraddizioni ideologiche lo avrebbero certamente fatto esplodere un giorno o l’altro. Dopo lo scioglimento, due dei vecchi membri, Isaac Cronin e Dan Hammer, andarono a Parigi ed a New York per incontrare dei membri dell’I.S.

Mentre aspettavamo, con Ron, abbiamo fondato il nostro gruppo di due persone, chiamato retrospettivamente “1044”, dal numero della nostra casella postale. Ron si sistemò da me in luglio, e per alcuni mesi vivemmo in modo comunitario, seguendo la falsa idea che ci eravamo fatti a partire dall’esempio del CEM e del CCE, che era di rigore in qualsiasi organizzazione situazionista. In realtà, benché l’I.S. fosse molto rigorosa per quello che riguardava la democrazia interna del gruppo e con grande cura cercasse di evitare ogni gerarchia, l’adesione non implicava alcun collettivismo economico né alcun sacrificio della propria vita privata o della propria indipendenza negli affari personali. Ci rendemmo conto rapidamente che il nostro equivoco purista non era molto agevole, anche se l’esperienza di vivere e lavorare insieme più strettamente del solito era stata interessante per certi aspetti.

La nostra mistificazione sull’organizzazione coerente era legata ad una concezione abbastanza apocalittica della pratica coerente. Il nostro breve testo In This Theater [In questo teatro], con la sua evocazione della “triade unitaria”, partecipazione, comunicazione e realizzazione (vedi il capitolo 23 del Trattato del saper vivere di Vaneigem) riflette abbastanza bene il nostro stato d’animo dell’epoca. Sapevamo che le separazioni nella nostra vita avrebbero potuto essere superate definitivamente soltanto da una rivoluzione, ma credevamo possibile fare un importante passo in avanti attaccando queste separazioni in modo unificato. La mia interruzione della conferenza di Snyder era stata una tale rivelazione che tendevo, più di Ron, a dare troppa importanza a tali esperienze, considerandole indispensabili; immaginavo che se soltanto altra gente potesse fare un simile salto qualitativo, avrebbero scoperto anche loro un intero nuovo mondo di possibilità nel “rovesciamento di prospettiva”. Nel mio desiderio di indurre la gente a compiere tali esperienze, mi mostravo spesso troppo pedagogico, una cattiva abitudine che sussiste ancora oggi. Sono sempre convinto che la gente debba prendere delle iniziative autonome se vuole sfuggire al suo condizionamento, ma non serve praticamente mai a niente predicare e sollecitare. Come ho detto sopra, uno dei meriti del CEM fu di non averci mai guidato prodigandoci consigli saggi e dettagliati, ma di averci rivolto semplicemente alcune critiche incisive e di averci in seguito lasciato soli. Dopo molti sforzi inutili per risvegliare i nostri amici, abbiamo imparato a fare la stessa cosa.

Alla nostra prima riunione con i delegati del CEM, essi avevano portato un magnetofono per registrare la nostra conversazione. Da un lato, perché gli altri membri del loro gruppo la potessero ascoltare più tardi, ma anche perché trovavano utile rivedere costantemente la loro pratica. Ron ed io facemmo la stessa cosa in occasione di alcune delle nostre discussioni con amici, rilevando, ascoltandoli successivamente, i momenti in cui avevamo parlato troppo, quando eravamo diventati pedanti, quando avevamo risposto insufficientemente, ecc. L’idea generale era di diventare più coscienti di tutto ciò che facevamo, di prendere coscienza delle pratiche indesiderabili e rompere con quelle, modificando le forme di comportamento dettate dall’abitudine. Tra i vari metodi che usammo a questo scopo, c’era la “conversazione in cerchio” — tre o più persone sedevano in cerchio ed ogni persona parlava solo quando era il suo turno —, la discussione di argomenti messa per iscritto — per costringerci ad organizzare meglio le nostre idee —, e il deturnamento dei fumetti — aggiungendo nuovi balloons per comporre una nuova storia su un tema dato o copiando dei passaggi scelti a caso nei testi situazionisti o in altri scritti. In occasione della nostra esperienza più importante di questo tipo, abbiamo riservato un intero giorno ad un programma arbitrario ma dettagliato di attività diverse: brevi periodi successivi per leggere, sbrigare la corrispondenza, il “brainstorming”, disegnare, cucinare, mangiare, la scrittura automatica, danzare, pulire della casa, tradurre, recitare una commedia, redigere opuscoli, deturnare fumetti, fare lavori di giardinaggio, meditare, fare esercizio fisico, riposare, discutere, improvvisare; quindi abbiamo occupato la settimana successiva scrivendo un resoconto di dieci pagine sull’esperienza, che abbiamo fatto stampare in una dozzina di copie per darle ad alcuni amici.

Per evitare che ciò si aggiunga ai malintesi già numerosi su “ciò che fanno i situazionisti”, occorre sottolineare che quest’episodio è rimasto unico, e che le altre attività citate qui non erano obbligatoriamente tipiche del milieu situ(1) in generale. Benché i gruppi influenzati dall’I.S. avessero una discreta tendenza alla sperimentazione, nella vita quotidiana e nell’agitazione politica, i modelli di sperimentazione variavano considerevolmente. Alcuni dei nostri progetti riflettevano la nostra formazione nell’ambiente della controcultura, che ci distingueva dai nostri omologhi europei. Naturalmente ci rendevamo conto perfettamente dei limiti di tali esperienze. Ma la liberazione anche solo di un piccolo spazio durante un breve lasso di tempo, incita a desiderare di più. Si sviluppa il gusto di giocare con diverse possibilità invece di supporre sempre che lo statu quo sia inevitabile, e si raggiunge una sensibilità più concreta riguardo gli ostacoli sociali e psicologici che ti ostacolano. Il vantaggio di queste sperimentazioni, sono che in un quadro limitato si può ricercare qualunque cosa senza alcun rischio, eccetto quello salutare di mettere in difficoltà il proprio ego. Gli stessi principi sono applicabili nell’attività pubblica, sebbene ciò esiga ovviamente maggiore prudenza.

Le nostre avventure pubbliche hanno comportato vari tentativi di deturnamento, tattica situazionista che consiste nell’utilizzare dei frammenti culturali per nuovi usi sovversivi. Una delle mie creazioni era un balloon di fumetto stampato su carta autoadesiva, concepito per essere attaccato sui manifesti pubblicitari in modo che il modello femminile di una bellezza stereotipata svolgesse una critica della funzione manipolatrice della sua immagine: “Salve, uomini! Sono l’immagine di una donna che non esiste. Ma il mio corpo corrisponde ad uno stereotipo che siete stati condizionati a desiderare. Poiché è poco probabile che vostra moglie o la vostra amichetta assomiglino a me, voi siete naturalmente frustrati. Le persone che mi hanno messo qui vi hanno preso esattamente dove volevano prendervi: per le palle. Quando la vostra virilità è messa in dubbio, siete come pasta frolla nelle loro mani...” (Se posso permettermi di dirlo, penso che questo modo di ribaltare la manipolazione spettacolare contro di sé sia più illuminante delle solite lamentele e proteste del tipo “questa pubblicità sfrutta le donne” — come se non manipolassero o sfruttasserro anche gli uomini.) Ho approfittato anche della partecipazione libera ad una lettura di poesie aperta a tutti per leggere una lunga critica dei limiti della poesia puramente letteraria, Ode on the Absence of Real Poetry Here This Afternoon [Ode sull’assenza della vera poesia qui questo pomeriggio], con grande perplessità ed grande insoddisfazione degli altri poeti presenti, ai quali la regola del gioco imponeva di ascoltare la mia “poesia” gentilmente e senza interrompermi.

A quell’epoca, Ron aveva scritto un opuscolo che analizzava una recente sommossa dei Chicanos di Los Angeles, e per scherzo, l’aveva firmato “Herbert Marcuse”. Il trucco attirò numerosi lettori, dapprima perché la gente credeva che Marcuse ne fosse realmente l’autore, poi, quando Marcuse si sentì costretto a rinnegarlo pubblicamente, perché un maggior numero di persone si immerse in varie congetture sul vero autore di questo strano scherzo. Per aumentare l’effetto dello scherzo, scrivemmo una serie di lettere firmate con pseudonimi ai giornali locali che diedero ancora più pubblicità all’opuscolo, denunciandolo. Questa tattica di pubblicare dei testi falsamente attribuiti, che avevamo chiamato più tardi “contraffazionismo”, fu usata senza precauzioni in seguito da altri gruppi, producendo in genere più confusione che chiarezza. L’abbiamo presto abbandonata, e nell’autunno di quell’anno, io mi dedicai, con Isaac, ad una critica di alcuni aspetti dell’opuscolo “Sull’uso dello scalpello sovversivo” che dava l’errata impressione che il deturnamento significasse seminare a caso la confusione nello spettacolo.

Inserendo il passaggio dei situazionisti, iniziammo anche a colmare le nostre grandi lacune sulla conoscenza dei tentativi radicali del passato, studiando la storia delle rivolte del passato e studiando personaggi importanti come Hegel (difficile, ma un minimo di familiarità con quest’ultimo ci permetteva di sviluppare un senso migliore dei processi dialettici), Charles Fourier (la cui affascinante ma anche un po’ stravagante utopia è basata sull’incoraggiamento, piuttosto che sulla repressione, dell’interazione delle varietà delle passioni umane), Wilhelm Reich (le sue prime analisi sociopsicologiche, non le sue più tarde teorie “orgoniche”); ed alcuni i pensatori marxisti più radicali, Rosa Lussemburgo, Anton Pannekoek, Karl Korsch, il primo Lukács.

E Marx stesso. Come la maggior parte degli anarchici, non sapevamo praticamente nulla di lui ad eccezione di alcune banalità sul suo supposto autoritarismo. Quando scoprimmo che molte delle idee più pertinenti dei situazionisti, ed anche alcune delle loro frasi più sorprendenti, derivavano da Marx, iniziammo a riesaminarlo più accuratamente. Ci rendemmo conto rapidamente che accostare Marx al bolscevismo, o peggio ancora allo stalinismo, tradiva una grande ignoranza; e che, benché ci siano, senza alcun dubbio, dei difetti importanti nella sua prospettiva, le sue analisi su numerosi aspetti della società capitalista erano così penetranti che era altrettanto ridicolo cercare di sviluppare un’analisi sociale coerente senza tenerne conto quanto provare a sviluppare una teoria biologica coerente senza tener conto di Darwin.(2)

Sicuramente, leggevamo tutto ciò che potevamo trovare dell’I.S. Sfortunatamente, la maggior parte dei testi situazionisti era disponibile soltanto in francese. Oltre a cinque o sei opuscoli ed alcuni volantini, esistevano in inglese soltanto alcune traduzioni approssimative e scritte a mano, fatte da gente che, molto spesso, non conosceva il francese più di noi. Mi ricordo ancora l’esaltazione, ma anche la frustrazione, che provammo, imbattendoci per la prima volta in una copia del Trattato del saper vivere di Vaneigem, che cercammo di leggere in una pallida fotocopia di una fotocopia di una fotocopia di una cattiva traduzione manoscritta. Quando mi resi conto del numero di testi che restavano ancora inaccessibili, iniziai a rimettermi a studiare francese, di cui non avevo che una conoscenza scolastica e che avevo dimenticato da tempo. Avevo sempre immaginato che sarebbe stata una grande cosa diventare abbastanza colto per leggere i miei autori francesi favoriti nella lingua originale, ma quello scopo era troppo vago per decidermi agli studi necessari. I situazionisti mi diedero la motivazione per farlo. Del resto quasi tutta la gente che conoscevo e che dimostrava loro un vero interesse ha imparato presto o tardi il minimo di francese necessario a comprendere, anche soltanto penosamente, l’essenziale dei testi più importanti. Nelle nostre successive riunioni con compagni di altri paesi, il francese era la nostra lingua franca quanto l’inglese.


Contradiction

Durante l’estate 1970, Ron ed io incontrammo Michael Lucas, che si era trasferito nella Bay Area, insoddisfatto del gruppo Anarchos di Murray Bookchin di New York al quale aveva partecipato per qualche tempo. In ottobre, Sydney Lewis, uno degli emissari del CCE che avevamo incontrato in primavera, arrivò in città, avendo lasciato il gruppo, disilluso da alcune delle loro più eccessive rigidità ideologiche. Un po’ più tardi Dan ed Isaac ritornarono da Parigi e da New York. Scambiando le nostre conclusioni sulle rispettive esperienze, positive e negative, constatammo un’importante convergenza di opinioni.

Sviluppammo due progetti collettivi: un gruppo dedicato allo studio della Società dello Spettacolo di Guy Debord (l’altro principale libro situazionista), che era stato appena tradotto da Black and Red, ed una critica della controcultura e del movimento radicale americano. Il gruppo di studio non durò a lungo — avevamo rapidamente stabilito che, per comprendere le tesi di Debord, era meglio utilizzarle direttamente (nei graffiti, negli opuscoli e nelle premesse della nostra critica del movimento) che discuterle soltanto in astratto. Le prime fasi della critica del movimento confermarono un accordo sempre più stretto tra noi sei, pur avendo eliminato altre tre o quattro persone che avevano assistito al gruppo di studio, ma senza aver mai intrapreso nessuna iniziativa autonoma. In dicembre Dan, Isaac, Michael, Ron ed io, fondammo il gruppo Contradiction [Contraddizione]. Oltre alla nostra critica del movimento, prevedevamo l’edizione di una rivista sul modello dell’I.S. così come diverse altre attività critiche.

Sydney sarebbe quasi certamente stato il sesto membro del nuovo gruppo se non fosse tornato nell’Est poco prima della sua formazione; ma una volta lasciata la città si diresse verso prospettive abbastanza diverse, e finimmo per rompere con lui. Durante questo periodo, avevamo scoperto un nuovo compagno a Berkeley. Un giorno andando in giro per il campus universitario, ascoltai casualmente una conversazione tra due persone, di cui una faceva una critica intelligente del gauchisme burocratico. Dopo averle ascoltate per un momento, intervenni per dire a quest’ultimo che aveva assolutamente ragione, ma che perdeva il suo tempo, perché il suo interlocutore era evidentemente incapace di comprendere le sue argomentazioni. Mi guardò con aria stupita. Riflettendo un momento, si rese conto che avevo ragione. Si congedò dall’altro, e ci allontanammo per parlare. Dapprima lo lasciai parlare, limitandomi a fare segni affermativi con il capo e a chiedergli alcune precisazioni. Benché non avesse mai letto una parola dei situazionisti, era giunto da sé a quasi tutte le loro posizioni. Quindi, presi alcuni opuscoli dalla mia borsa e gli lessi alcuni passaggi dove si trovavano precisamente le idee che aveva voluto esprimere. Ne rimase allibito! Iniziò a collaborare con noi nella critica del movimento e finì per diventare il sesto membro di Contradiction. L’incontro con John Adams mi è sempre sembrato una sorprendente conferma della pretesa dei situazionisti di esprimere semplicemente una realtà che era già presente, piuttosto che di propagare un’ideologia.

La prima pubblicazione di Contradiction fu il mio manifesto Bureaucratic Comix [Comics burocratici], ispirato dalla recente rivolta in Polonia. Ora che tutto il mondo si è abituato all’idea del crollo dello stalinismo, vale la pena di ricordare quanto la gente quella volta fosse convinta della sua permanenza come di una certezza, e la mancanza quasi totale di comprensione della Nuova Sinistra quando si trattava delle questioni sollevate da tale rivolta. Mentre alcuni gruppi gauchistes hanno provato a fare una distinzione tra i regimi “revisionisti” dell’Europa dell’Est e quelli “rivoluzionari” del Terzo Mondo, la maggior parte dei giornali alternativi neppure menzionava la sollevazione, non sapendo come conciliare quell’evento con il loro mondo di fantasia guevarista. Così il deturnamento dei diversi eroi del movimento nel manifesto, che potrebbe sembrare soltanto divertente ai lettori d’oggi, ebbe un effetto veramente traumatizzante sui loro ammiratori, come alcuni di loro ammisero più tardi.

Mentre sperimentavamo con metodi che traevano ispirazione dall’I.S., la stessa I.S. attraversava le crisi che portarono alla fine al suo scioglimento.

Nel marzo 1971 andai a New York per incontrare Jon Horelick e Tony Verlaan, gli ultimi membri della sezione americana dell’I.S., ed appresi che si erano separati recentemente dagli europei. Mi diedero un sacco di corrispondenze e di documenti interni, la maggior parte in francese, che mi sforzavo di leggere cercando di comprendere di cosa si trattasse, generalmente invano. Quindi presi l’aereo per Parigi.

Le prime persone che andai a trovare furono Roger Grégoire e Linda Lanphear, vecchi membri di Black and Red. Avevamo letto con interesse le pubblicazioni di questo gruppo (soprattutto l’eccellente libro di Grégoire e Perlman sulle loro attività nel maggio 1968), che univano alcune caratteristiche situazioniste con un orientamento anarco-marxista più tradizionale; ma il nostro interesse si era allentato quando il gruppo aveva iniziato a fissarsi sull’eclettismo ultragauchiste. Una recente lettera aperta con la quale Roger e Linda l’avevano criticato (”Ai lettori di Black and Red”) mostrava che, come tutti noi, anche loro evolvevano verso una pratica più rigorosa, alla maniera dei situazionisti. Ci intendevamo bene, e alla fine rimasi da loro per quasi tutto il mio soggiorno.

Non riuscii a vedere gli ultimi membri dell’I.S., ma incontrai molti altri situazionisti parigini, tra cui Vaneigem ed altri due ex-membri dell’I.S. Nelle nostre discussioni si mescolavano scambi di informazioni e di idee realmente interessanti insieme a speranze e illusioni esagerate che emergevano nell’inebriante fase successiva al maggio 1968.

Il solo fatto di essere a Parigi era appassionante. Assorbivo tutti i nuovi suoni, le visioni e gli odori, girando per ore attraverso il labirinto delle viuzze dal selciato liscio, fra piccoli negozi oscuri ed edifici vecchi di molti secoli; bevendo alla terrasse dei caffè all’aria aperta, osservando tutti i passanti, afferrando al volo dei provocanti frammenti di quella lingua straniera che cominciavo appena a comprendere; facendo le spesa nei piccoli mercati che si trovavano all’epoca in quasi tutti gli angoli; gustando i deliziosi pasti francesi composti da molti piatti come i liquori ed i vini eccellenti, durante ore di conversazione animata...

Dopo sei settimane a Parigi (e dei brevi viaggi a Londra e ad Amsterdam), tornai a New York, dove rimasi per quindici giorni da Tony Verlaan. Jon Horelick e lui avevano appena rotto, e Jon effettivamente scomparve per due anni, fino a quando fece uscire la sua rivista Diversion. Nell’attesa, Tony ed Arnaud Chastel avevano formato il gruppo Create Situations, e stavano traducendo alcuni vecchi articoli dell’I.S. Io li aiutai un po’ in questo lavoro, quindi ritornai a Berkeley.

Durante i mesi seguenti, ci furono molte visite: Tony ed Arnaud (dopo quindici giorni di confronti tumultuosi, rompemmo rotto con loro); Point-Blank (un gruppo di giovani di Santa Cruz, piccola città universitaria a sud di San Francisco, con il quale rompemmo ugualmente dopo avere collaborato per qualche tempo); Roger e Linda; uno o due compagni inglesi; ed una giovane coppia spagnola, Javier e Tita. Tita ed io ci intendemmo molto bene fin dal nostro primo incontro, benché la nostra comunicazione verbale dapprima si limitasse al sabir francese. Quando Javier tornò in Europa alcune settimane più tardi, lei rimase con me.

Nello stesso periodo, continuavamo a lavorare sulla critica del movimento (“Critique of the New Left Movement” e “On the Poverty of Hip Life”) e su altri articoli per la nostra rivista. Purtroppo, nessuno di questi lavori doveva giungere a conclusione, a parte alcuni opuscoli d’interesse secondario. C’erano molte buone idee nelle nostre bozze, ma anche molte insufficienze, e ci siamo mostrati incapaci di portare a termine i nostri progetti. La ragione era da una parte che volevamo fare troppo, e dall’altra che avevamo organizzato male il lavoro. C’erano molte fatiche inutili. Una persona poteva dedicare molto lavoro ad un argomento per venire a sapere in seguito che la sua bozza avrebbe dovuto essere riorganizzata radicalmente per accordarsi con i cambiamenti introdotti in altri articoli; ma alla riunione seguente avrebbe trovato forse delle modifiche supplementari in quest’altri articoli che esigevano ancora altri cambiamenti nel suo articolo... Le riunioni diventavano sempre più noiose.

Retrospettivamente, penso che avremmo certamente fatto meglio a delegare a una o due persone il compito di redigere il testo finale sul movimento, perché avrebbero potuto trarre qualcosa dai contributi individuali senza essere costretti inevitabilmente a rispettare i testi originali nei minimi dettagli. Inoltre, sarebbe forse stata una buona idea pubblicare brevi versioni preliminari di alcuni capitoli, prodotte e firmate dai vari autori di questi testi, sia per affinare le nostre tesi tenendo conto delle reazioni e delle critiche, sia per sviluppare una maggiore autonomia individuale.

Intanto, le diverse frazioni del movimento si autodistruggevano, a causa delle contraddizioni che avevamo analizzato, e c’era sempre meno da attaccare, che non fosse già screditato. All’inizio del 1972, praticamente la sola cosa che ci rimaneva da fare era un’autopsia più lucida. Aarebbe comunque valsa la pena (si deve comprendere ciò che ha funzionato male se si vuole far meglio in futuro), ma in quel momento ne avevamo le palle così piene del progetto che ci mancò l’entusiasmo necessario. Avevamo già iniziato a dirigerci verso altre attività. Michael ed io ci interessavamo a fondo di musica classica, e passavamo gran parte del nostro tempo ad ascoltare dischi o assistere a concerti e ad opere. Dan ed Isaac trascorrevano molto tempo a San José, una città a sud di San Francisco, a lavorare con Jimmy Carr (vecchia Pantera Nera e cognato di Dan) sulle sue memorie di prigione(3). Il nostro abbandono della critica del movimento nell’aprile 1972 segnò la fine effettiva del nostro gruppo, sebbene lo sciogliemmo esplicitamente soltanto in settembre.

Seguì un esodo. John e Michael lasciarono la regione. Dan, Isaac e la sua ragazza Jeanne partirono in Europa, dove Tita era tornato un po’ prima. Vedevo Ron di tanto in tanto, ma quasi nessun altro. Le mie relazioni con molti dei vecchi amici si erano raffreddate dal tempo dei nostri confronti nel 1970, ed alcuni di quelli con cui mantenevo ancora dei rapporti intimi erano tornati nel Midwest, poiché la controcultura era giunta alla sua fine. I soli giorni felici di tutto quell’anno fu la ripresa di relazioni con una ragazza, che era venuta dal New England per una breve visita. Purtroppo c’erano troppi ostacoli per poter continuare.

Isolato, depresso e frustrato dal coitus interruptus di Contradiction, non avevo lo spirito adatto per fare nulla eccetto la lettura, la musica classica, e lo sforzo per garantire la mia sopravvivenza grazie al poker.

Il circolo privato dove avevo l’abitudine di giocare si era disperso, e facevo riferimento ai casinò di Emeryville, una piccola città vicina. Era un affare più complicato: non solo la concorrenza era più serrata, ma in più si doveva pagare un prezzo orario alla casa. Vi ho lavorato quasi a tempo pieno per molti mesi, e molto rapidamente, non potevo più allontanarmi dal gioco. Riuniti attorno ad un tavolo di feltro verde, isolati dal mondo esterno, si diventa disincantati. Il pensiero di tornare a qualunque lavoro monotono sembra insopportabile quando ci si ricorda la notte in cui si è usciti con un guadagno di molte centinaia di dollari dopo poche ore di gioco; e si tende a dimenticare tutte le proprie perdite o ad attribuirle ad una sfortuna passeggera. Avevo sperato che con l’esperienza sarei diventato gradualmente più abile e avrei guadagnato abbastanza per passare a sfide più grandi. Ma i conti mostravano che i miei guadagni netti si stabilizzavano intorno ai 75 cents per un’ora. Alla fine, a novembre ho rinunciato.


Un nuovo inizio

Era un passo sulla strada giusta, ma non sapevo molto bene cosa fare in seguito. Ispirato dalla lettura di Montaigne, ho provato a scrivere dei saggi auto-analizzandomi. Questa non sarebbe forse stata una cattiva idea in altre circostanze (quest’autobiografia ha comportato molta auto-analisi di questo genere), ma all’epoca non ne è sortito nulla, perché praticamente qualsiasi argomento sul quale iniziavo a scrivere presto o tardi mi conduceva a fare dei paragoni con l’esperienza di Contradiction, e ciò mi deprimeva così tanto che mi mancava il coraggio di continuare. Ma la coscienza di eludere la questione mi metteva ugualmente in difficoltà.

In dicembre Dan, Isaac, Jeanne e Tita tornarono tutti dall’Europa. Come lo ho già raccontato nel mio Case Study [Caso di studio], il loro ritorno ha contribuito a rianimarmi. Ho ricominciato a sperimentare, ho riesaminato le mie relazioni (e questo ha condotto ad alcune rotture traumatiche), e dopo aver rigettato tutta l’esperienza di Contradiction per molti mesi, mi sono deciso finalmente ad esporla in un opuscolo. Come per il mio volantino su Snyder, era un mezzo per prendere due piccioni con una fava: dapprima, volevo arrivare a comprendere per me stesso ciò che era andato male, ma volevo, allo stesso tempo, obbligare anche altre persone ad affrontare queste questioni, quelli che erano direttamente interessati come quelli che avrebbero potuto trovarsi implicati in esperienze simili in futuro.

Farò più avanti alcune osservazioni sulla pratica situazionista della rottura. Per il momento mi limiterò a ricordare che mi rammarico della prima lettera citata in Case Study, che era scritta a C— la ragazza di Ron. I difetti per i quali l’ho criticata non erano in realtà più gravi del genere di piccole menzogne o di leggere ipocrisie di cui quasi tutto il mondo si rende colpevole. Sarebbe probabilmente bastato prendere gentilmente le distanze da lei, come si fa generalmente in tali casi, e come farei certamente oggi. E ciò sarebbe stato molto meno duro per ogni persona interessata. Ma quella volta, credetti che fosse necessario ricorrere a misure energiche per uscire dal fosso nel quale ero caduto.

Fu proprio la conseguenza di quella lettera, nel bene e nel male. Da una parte, aveva aperto la strada ad una rinascita personale che ho descritto in “Case Study”; dall’altra parte, non ha soltanto messo fine alla mia relazione con C—, ma anche a quella con Ron, e infine pure con John e Michael. Ciò mi rattristò profondamente, ma avevo voluto scientemente correre questo rischio. Ironia della sorte, ho incontrato C— per caso alcuni anni più tardi ed abbiamo riannodato i rapporti, a livello superficiale ma amichevole; mentre la separazione da da Ron è durata vent’anni, e non è finita che recentemente quando, dopo avere riconsiderato l’incidente scrivendo quest’autobiografia, ho preso l’iniziativa di scrivergli una lettera di scuse.

(Abbiamo perso contatto con Michael Lucas — che in base alle ultime notizie viveva in Germania — e con John Adams. C’è qualcuno che sa dove si trovino?)

La seconda lettera critica citata in Case Study (che mi sembra più giustificata nella misura in cui non si trattava di una lettera di rottura, ma soltanto di una solenne sfida) era indirizzata ad un amico di Dan, Isaac e Jeanne, mettendo così in pericolo qualcun’altra delle mie relazioni più strette. Ma dopo alcune esitazioni, si sono rapidamente posti dalla mia parte. La pubblicazione di Remarks on Contradiction [Osservazioni sul gruppo Contradiction], aggiunta ai cambiamenti sorprendenti che realizzavo nella mia vita, iniziava ad ispirare loro delle avventure simili, cosa che ci rendeva più intimi che mai.

Durante i due o tre mesi seguenti ci fu da noi una vampata di auto-analisi, di esercizi neo-reichiani, di trascrizioni di sogni, di rimesse in discussione del nostro passato, e di altre sfide ai tratti di carattere radicati ed alle relazioni pietrificate. Tutto ciò era salutare; ma dopo un po’ di tempo giunsi a pensare che ci eravamo immersi in modo eccessivo nell’introspezione e nella psicoanalisi. Scrissi loro una lettera che sottolineava il contesto sociale delle nostre esperienze e la necessità di superare continuamente la nostra situazione per non cadere in un altro fosso.

Con la mia più grande gioia, risposero alla sfida facendo passare il dialogo ad un altro livello. Tre giorni più tardi arrivarono da me con la bozza di un grande manifesto:


Siamo stanchi di godere da soli

Spiriti veramente voluttuosi,
       (...) Siamo tre persone che sono simili a voi per molti aspetti. (...) Noi avevamo delle prospettive comuni a proposito della vita quotidiana, che riguardano ciò che volevamo o non volevamo della società com’è organizzata attualmente. Noi lavoravamo il meno possibile, (...) leggevamo tutti i libri migliori (Il Capitale, Il falcone maltese, ecc.), ascoltavamo la migliore musica, mangiavamo nei migliori ristoranti economici; ci ubriacavamo, facevamo escursioni a piedi, andavamo in spiaggia o a Parigi. (...)
       Eravamo antispettatori dello spettacolo della decomposizione. Leggevamo i giornali [nell’originale: The Chronicle] come tutti voi, cioè “in modo critico”, il che vuol dire che il cinismo chic che ci sembrava aggiungesse un po’ di piccante alla nostra vita contribuiva in realtà a privarci di spirito. Facevamo molte astute osservazioni sulle mancanze e sugli eccessi del mondo borghese, ma nonostante che ci rimproverassero di essere troppo audaci, eravamo in realtà troppo timidi. (...)
       Abbiamo ricevuto dei salutari calci nel didietro da Reich, istruzioni per l’uso di Jean-Pierre Voyer e dall’uso di Voyer fatto dal nostro amico Ken Knabb in Remarks on Contradiction and Its Failure [Osservazioni sul gruppo Contradiction ed il suo fallimento]. L’opera di Voyer era la prima che dopo Debord metteva concretamente in luce la nostra alienazione. Ci siamo resi conto che eravamo in gran parte complici dello spettacolo regnante, e che il carattere è la forma di questa complicità. Abbiamo iniziato a mettere in atto il progetto strategicamente cruciale della dissoluzione del carattere — dopo dei tentativi che psicologizzavano troppo l’attacco contro il carattere (Isaac e Jeanne), o che si difendevano contro quest’attacco criticando la psicologia (Dan) — comprendendo in questo attacco quei tratti che avevamo fino ad allora accettato come parte integrante di noi stessi, inevitabili e permanenti delle nostre personalità, tratti che noi, nella nostra timidezza, avevamo creduto “troppo personali” per sottoporli alla critica eccetto quando diventavano troppo evidentemente eccessivi. Una volta iniziato questo progetto negativo, la positività era liberata dalle catene della repressione. (...)
       Il nostro attacco contro questo marciume ha reso le costrizioni esterne - soprattutto la nostra incapacità di incontrarvi — tanto più insopportabili. L’arricchimento delle relazioni tra noi ha messo in evidenza la povertà delle nostre relazioni con il resto della città (...)
       Noi contiamo sul fatto che quest’indirizzo ci aiuterà a spezzare alcuni degli ostacoli che ci impediscono di incontrarvi. (...) Ma che ve ne accorgiate o no, andiamo verso voi.

Per giorni senza catene e notti senza armatura,

—Dan Hammer, Jeanne Smith, Isaac Cronin.


Poiché il manifesto a fumetti che annunciava la mia traduzione del testo di Voyer doveva essere stampato contemporaneamente al loro, decidemmo di diffondere insieme i due manifesti. Nei giorni successivi ne abbiamo affissi varie centinaia ovunque nella Bay Area.

Per quanto originale ed audace fosse il loro manifesto, le reazioni rivelarono che mancava di chiarezza. Le decine di lettere che ricevettero mostravano bene che aveva toccato una corda sensibile, ma la maggior parte dei loro autori aveva l’impressione che si trattasse soltanto di superare l’isolamento individuale incontrando più gente, e non aveva affatto colto il rapporto sottinteso con la critica sociale.

Tuttavia, i due manifesti ci portarono ad incontrare molta più gente del solito — non soltanto coloro che ci avevano scritto, ma molti altri, per le strade o nei caffè, che erano intrigati dal nostro comportamento malizioso e vivace e perché evidentemente ci divertivamo molto. Il mio nuovo biglietto da visita, che mi presentava come “investigatore speciale” del “Bureau of Public Secrets” [Ufficio dei segreti pubblici], si aggiungeva al miscuglio di divertimento e di mistero, quando la gente arrivava all’inevitabile domanda: “Di che cosa vi occupate esattamente?”

Nell’autunno 1973, andammo tutti in Europa, ma non tutti negli stessi posti allo stesso tempo. Sono rimasto a Parigi per tre mesi, ancora presso Roger e Linda e passando la maggior parte del tempo con la loro cerchia di amici, che comprendeva allora Jean-Pierre Voyer. Ero stato ispirato dallo stile in modo molto audace del primo periodo di Voyer (il titolo “Bureau of Public Secrets” era suggerito in parte dalla sua nozione di pubblicità). Trovavo che era pieno di idee stimolanti, ma che aveva anche tendenza a farsi trasportare dalle sue scoperte teoriche, rifriggendole al punto che diventavano ideologiche. Ero ugualmente deluso dall’apprendere che non sviluppava alcuna delle idee embrionali che mi avevano interessato maggiormente nel suo testo su Reich. E mi sono reso conto che se avessi voluto vedere sviluppare queste idee, avrei dovuto farlo io stesso (cosa che ho fatto più tardi, in una certa misura in Double-Reflection [Doppia riflessione] e in Case Study).

Durante le mie prime settimane a Parigi ci furono molte discussioni animate che giravano attorno alle idee di Voyer e alle nostre ultime avventure in California. Presto arrivai alla conclusione che questo sproloquio non stava portando a nulla e che restavano molte rigidità e rimozioni nei nostri rapporti, e scrissi una lettera a Voyer e ad altri che criticava il nostro ambiente in generale e ognuno degli individui interessati. Ciò ha suscitato una vampata di discussioni personali per alcuni giorni, ma infine non cambiò nulla. Di conseguenza le nostre relazioni si raffreddarono.

La mia impazienza era in parte dovuta al contrasto tra loro e Daniel Denevert, che avevo appena incontrato. Lui aveva scoperto una copia di Remarks on Contradiction in una libreria a Parigi ed aveva deciso di tradurlo; quindi aveva saputo per caso che mi trovavo a Parigi, e mi aveva cercato. Lui stesso era l’autore di un opuscolo che avevo trovato eccellente Pour l’intelligence de quelques aspects du moment [Per l’intelligenza di alcuni aspetti del momento]. Quest’accordo ha contribuito ad un incontro appassionante. Passai quasi tutto il resto del mio soggiorno a Parigi con lui e con gli altri membri del suo gruppo, che si era appena formato, il “Centre de recherche sur la question sociale” [Centro di ricerca sulla questione sociale] (CRQS): sua moglie Françoise Denevert (pseudonimo Jeanne Charles), Nadine Bloch e Joël Cornuault.


Il gruppo “Notice”

Quando ritornai a Berkeley in dicembre, lavoravo già su Double-Reflection. Dan ed Isaac preparavano ciascuno dei piccoli bollettini. Tita aveva appena pubblicato una versione spagnola dell’articolo di Voyer su Reich ed iniziava a tradurre le Banalità di base di Vaneigem. Robert Cooperstein (un amico che avevamo incontrato l’anno prima) lavorava ad un opuscolo illustrato a fumetti sui bambini. Nel marzo 1974 ricevemmo un’inattesa prova della giustezza delle nostre prospettive quando Chris Shutes e Gina Rosenberg pubblicarono Disinterest Compounded Daily, una dettagliata critica di Point-Blank dall’interno (Chris era un ex-membro e Gina vi aveva collaborato per qualche tempo) che era ispirata in parte dalle nostre pubblicazioni recenti.

Nei mesi seguenti ci furono collaborazioni tra noi e il CRQS. Una volta che io completai Double-Reflection (che Joël iniziò immediatamente a tradurre in francese) mi unii a Dan e Robert per tradurre il recente opuscolo di Daniel, Théorie de la misère, misère de la théorie [Teoria della miseria, miseria della teoria], come pure altri due testi del CRQS; il capitolo sul “derrièrisme” [indietrismo] in Double-Reflection spinse Chris a scrivere un opuscolo sull’argomento; Chris ed Isaac scrissero una critica della rivista di Jon Horelick, Diversion, quindi iniziarono a lavorare sulla loro rivista, Implications; Isaac e Gina tradussero l’articolo di Debord sulla deriva; Isaac e Dan composero un opuscolo su una sommossa in seguito a una partita di baseball a Cleveland, che distribuirono durante una partita di baseball a Oakland...

Come ci si poteva aspettare, iniziavamo a essere considerati come un’organizzazione de facto. La gente ci scriveva in blocco, o supponeva che una lettera di uno di noi rappresentasse anche l’opinione degli altri. Abbiamo pensato che avrebbe potuto essere interessante provare a mettere a punto una dichiarazione collettiva per vedere precisamente fino dove eravamo realmente d’accordo. Abbiamo finalmente fatto uscire un testo alla maniera della Déclaration [Dichiarazione] del CRQS, ma che precisava che per quanto condividevamo alcune prospettive, ciascuno di noi agiva a proprio nome. Notice concerning the Reigning Society and Those Who Contest It [Avviso riguardo la società dominante e coloro che la contestano] fu pubblicato nel novembre 1974 con un secondo manifesto che presentava le nostre pubblicazioni.

Nonostante l’indicazione contraria in Notice [Avviso], la pubblicazione dei due manifesti contribuì paradossalmente a rafforzare l’idea (in noi come negli altri) che costituivamo una tendenza unificata, la cui attività si traduceva in un insieme di testi approvati reciprocamente. Avevamo un accordo molto ampio, ma fu probabilmente un errore sottolineare questi aspetti comuni al prezzo di trascurare la diversità dei nostri punti di vista e dei nostri gusti. Eravamo più interessati a preservare la responsabilità individuale che di quanto era stato Contradiction, ma Contradiction aveva avuto un progetto comune di un’importanza che giustificava molto di più la creazione di un’organizzazione formale. Il fatto di formulare una dichiarazione collettiva può essere un mezzo proficuo per mettere a punto le proprie posizioni, ma presenta anche dei rischi. Parlare a nome di una comunità portava a farsi trascinare da una retorica esagerata, che si rischiava meno di impiegare se si parlava soltanto a proprio nome. La presunta “arroganza” di Notice era certamente soltanto uno sforzo deliberato di sfidare gli altri, e ben lungi dall’essere “elitario”, scardinava evidentemente ogni tendenza a diventare dei seguaci, degli imitatori servili e passivi. È vero, tuttavia, che questo tipo di stile tende a trasformarsi in’abitudine, e a favorire un atteggiamento pomposo. Avremmo probabilmente fatto meglio ad essere meno rigidi, più autonomi e più modesti.

Ad ogni modo, durante i tre anni successivi fummo tutti abbastanza vicini, tanto socialmente che politicamente. Lavoravamo anche insieme — Jeanne, Dan ed io alla rivista Rolling Stone a San Francisco, la maggior parte degli altri come imbianchini.

Quando lavoravo a Rolling Stone (come compositore) esaminai la possibilità di realizzare alcuni deturnamenti, come la sostituzione di una delle pagine con un testo che avrebbe criticato la rivista ed i suoi lettori, ma ciò non risultò attuabile sul piano tecnico. In modo più inoffensivo, semplicemente per divertire i miei compagni di lavoro, una notte mentre attendevo testi da dattilografare composi un’imitazione dell’indice della rivista, modellata sulle meravigliose trading cards “Grandi Momenti nel Vuoto” di Dan...

[Nota del traduttore: Non ho tradotto questo pastiche, poiché contiene vari giochi di parole di non semplice trasposizione e numerosi riferimenti che potrebbero risultare non sempre comprensibili al lettore italiano.]

Nell’estate del 1975 lasciai il mio posto a Rolling Stone per ricominciare a lavorare su alcune note che avevo preparato l’anno prima. Il primo numero (ed il solo) della mia rivista Bureau of Public Secrets [Ufficio dei segreti pubblici] fu completato nel gennaio 1976. Appena fu stampato e distribuito, io andai a Parigi.

A parte due brevi viaggi a Londra ed a Bordeaux, rimasi dai Denevert per tre mesi — qui come altrove in questo testo, ometto molti degli incontri, delle collaborazioni e in generale dei bei momenti passati, per concentrarmi di più su alcune svolte essenziali. Nell’insieme c’era una buona intimità. Ma nonostante il nostro accordo su molti dei punti, una divergenza apparve sempre più chiaramente sulla questione delle rotture. Durante il mio soggiorno loro avevano rotto con molte persone per ragioni che mi sembravano abbastanza astruse. Questa divergenza causava maggiori difficoltà quando tali rotture riguardavano gente con cui avevo relazioni strette. Joël Cornuault era stato escluso dal CRQS alcuni mesi prima, e Nadine Bloch si trovava in una posizione abbastanza scomoda, tra lui e Denevert. Il fatto che vedevo spesso Nadine, mentre Denevert non la vedeva quasi più, causò a volte delle situazioni imbarazzanti e delicate. In alcuni momenti poteva sembrare che un riavvicinamento fosse in corso; poi, una nuova rottura interveniva a causa di qualcosa di poco importante in apparenza. Benché riuscissi a comprendere abbastanza bene il francese, alcune sfumature mi sfuggivano ancora. Quando, ad esempio, una parte mi spiegava che tale frase in una lettera dell’altra era sarcastica ed ironica, l’altra lo negava...


Lo scioglimento di una comunità

Poco dopo essere ritornato a Berkeley, ricevetti una lettera di Daniel che annunciava una “rottura a catena” con Nadine; cioè non rompeva soltanto con Nadine, ma ugualmente con chiunque mantenesse qualunque relazione con lei. Tutta questa faccenda non mi era molto più chiara di quanto lo fosse prima (lui giustificava l’ultimatum per via del tono di una recente lettera di lei), ma dopo aver soppesato la questione con un certo tormento ho deciso di affidarmi al sentimento di rispetto che avevo per le capacità di discernimento di Daniel. Una simile fiducia avrebbe potuto essere giustificata se si fosse trattato di una persona sconosciuta, ma in quel caso avrei dovuto rifiutare quella richiesta. Anche se avesse messo fine al mio rapporto con Daniel, questo fatto avrebbe potuto porre prima per tutti noi la questione delle rotture, ed in una maniera più netta di come lo sia stata in seguito. Dopo aver capitolato in questo modo, diventava sempre più difficile per me prendere una posizione chiara sulle questioni dello stesso genere che emersero pochi mesi dopo.

Nonostante il carattere desolante di questo affaire, il suo impatto su di me fu alleviato dal fatto che, per il momento, riguardava soltanto le mie relazioni in Francia. A Berkeley, tutto sembrava andare abbastanza bene. Avevo iniziato a prendere delle note per The Realization and Suppression of Religion [La realizzazione e la soppressione della religione] a Parigi, e mi lanciai in questo progetto a tempo pieno fin dal mio ritorno. Iniziai anche ad imparare lo spagnolo ed il giapponese in corsi serali. Un corrispondente in Spagna stava preparando una piccola antologia di testi del BPS e del CRQS e volevo comprendere abbastanza bene lo spagnolo per poter controllare le sue traduzioni (comunque alla fine abbandonò il suo progetto). Corrispondevo anche con Tommy Haruki, anarchico giapponese che mostrava un vivo interesse per i situazionisti, e prevedevo di andare in Giappone. A parte le motivazioni politiche, mi era empre interessato alllo zen ed alla cultura giapponese. Facevo un po’ di zazen ogni mattina, e Robert, Tita ed io ci divertivamo molto ad un corso di karaté. Le mie relazioni con loro e con gli altri amici che avevano firmato Notice sembravano sempre abbastanza buone.

Ma ciò non durò a lungo. Alcuni mesi più tardi, una grave rottura intervenne tra noi. Ironicamente si produsse proprio nel momento in cui completavo l’opuscolo sulla religione, che era concepito in parte per mettere in questione gli aspetti dell’ambiente situ che tendevano a generare questo tipo d’ostilità e di delirio.

Nel gennaio 1977, Chris scrisse una lettera ai Denevert che metteva in questione le modalità della loro rottura con Joël e Nadine. Sisposero con una lettera sferzante indirizzata in blocco a tutti i firmatari di Notice. In questa risposta, i Denevert non criticavano soltanto molte delle affermazioni di Chris, giudicavano anche che la sua lettera era una flagrante manifestazione delle diverse incoerenze di cui tutti avevamo dato prova, o che almeno avevamo tollerato da tempo. Dopo molte discussioni su queste questioni, decidemmo di rompere con Chris — non tanto a causa delle opinioni disapprovate dai Denevert (su alcune di queste opinioni eravamo almeno in parte d’accordo con Chris) quanto a causa del riesame di alcune tendenze ricorrenti nella sua attività negli ultimi anni.

I Denevert conclusero che noi lo stavamo utilizzando come capro espiatorio, e ruppero con noi in aprile. Alcune settimane più tardi Gina finì per allinearsi alla stessa posizione, e impose che ciascuno di noi “(1) facesse una denuncia totale e pubblica della rottura con Chris e della lettera che formalizzava questa rottura; (2) (...) annunciasse la sua intenzione di fare un resoconto pubblico come momento del suo ritorno alla pratica rivoluzionaria, (...) una formalizzazione scritta della verità pratica che avrà colto nella sua lotta per mettere a punto la sua prospettiva dopo la fine dell’epoca di Notice; (3) cessasse ogni relazione con qualsiasi firmatario di Notice che non fosse in grado di soddisfare a questi due criteri”. Nel corso del mese che seguì Chris, Isaac, Robert e Tita accettarono queste tre richieste. Dan ed io le rifiutammo.

Credo ora che la rottura con Chris fosse ingiustificata, soprattutto tenuto conto delle circostanze nelle quali si era prodotta. I Denevert ci avevano sfidato a chiarire la nostra attività individuale e collettiva. Avremmo dovuto inizialmente fronteggiare le questioni fino a che ciascuno di noi avesse capito dove si trovava, invece di imbarcarsi esagerando l’importanza dei difetti di Chris, che visti retrospettivamente non mi sembra che fossero stati tanto gravi. Comunque, in quell’epoca non credevo che la rottura fosse così ingiustificata da esigere una “denuncia totale”; ed in ogni caso non avevo alcuna intenzione di “annunciare” un resoconto pubblico dell’affare prima di avere qualcosa di preciso da dire.

Accadde che nessuno di quelli che si erano ricongiunti alla posizione di Gina assolse mai alla sua seconda esigenza, ad eccezione di Isaac. Ed il suo testo bilioso (The American Situationists: 1972-77) comprendeva tante distorsioni e contraddizioni che è finito per dispiacere allo stesso Isaac che ne bloccò la diffusione, benché non si sia mai dato la pena di disconoscerlo pubblicamente.

Cominciai una critica del testo di Isaac, che, tra l’altro, proiettava su di me pretese ed illusioni alle quali mi ero di fatto opposto con veemenza ogni volta che si erano manifestate (più spesso in Isaac o Chris); ma compresi finalmente che si trattava di una distorsione così grezza della realtà che sarebbe stato necessario un testo molto lungo perché la questione fosse sufficientemente svolta. Non avevo alcun interesse a lasciarmi trascinare in un progetto così lugubre, tenuto conto che non avrei potuto fare nient’altro che confutare le sue deformazione o ribadire opinioni che avevo già espresso altrove.

Daniel diffuse un’analisi più seria e più coerente della sua posizione sulla faccenda in Sur les fondements d’un divorce [Sulle basi di un divorzio]. C’erano alcuni aspetti del suo resoconto che avrei potuto negare, ma la sua opinione principale era semplicemente che Françoise e lui avevano una posizione più rigorosa di noi sulle relazioni e le rotture, cosa che era abbastanza veritiera. Senza voler ridurre al minimo l’importanza delle nostre altre differenze, credo che alcune riflettessero soltanto la nostra distanza geografica. Così i miei inutili tentativi per fare circolare le pellicole di Debord negli Stati Uniti, dove la teoria situazionista era ancora quasi sconosciuta e dove avrebbero potuto avere un impatto salutare, erano visti da Daniel come se contraddicessero i suoi sforzi per criticare lo sviluppo di un’ortodossia “debordista” in Francia (critica espressa in particolare nel suo testo del dicembre 1976, Suggestions relatives au légitime éloge de l’I.S. [Suggerimenti relativi al legittimo elogio dell’I.S.]. Ma le condizioni prevalenti in Francia erano del tutto diverse.

Perché non reagii a questo pasticcio rendendolo pubblico, come avevo fatto in Remarks on Contradiction? Dapprima la mia frustrazione dopo il crollo di Contradiction era dovuta al fatto che tanti sforzi promettenti non avevano mai raggiunto una conclusione. Ma nel caso presente avevamo già comunicato l’essenziale di ciò che dovevamo dire in numerose pubblicazioni. D’altra parte, benché avessi molte cose da dire sulle ragioni del fallimento di Contradiction, non avevo raggiunto alcuna conclusione chiara sulle cause della rovina del gruppo “Notice”. Praticamente la sola conclusione che trassi da tutto quel misero affare era una determinazione personale a non cedere mai più alle pressioni in materia di rottura.

Avrei probabilmente fatto meglio a pubblicare almeno una dichiarazione pubblica, piuttosto che lasciar prolungare questa faccenda con la circolazione di voci non smentite. Ma a distanza di tempo, quando ogni persona interessata ha da tempo abbandonato le sue vecchie posizioni, sarebbe di scarso interesse ritornare sui dettagli contestati, che presentano scarso interesse.

Tuttavia questa è certamente una buona occasione per fare alcune osservazioni sulla controversa questione delle rotture di stampo situazionista.

Inizialmente, semplicemente per vedere la cosa nel suo contesto e per non perdere il senso delle proporzioni, occorre ricordare che con la rottura, i situazionisti non facevano nient’altro che scegliere le loro frequentazioni e indicare, nei casi in cui ci sarebbe potuta essere una certa confusione, le persone con le quali non volevano essere accomunati. Tale pratica non ha nulla di elitario. Coloro che vogliono realmente reclutare seguaci devoti impiegano del tatto, non gli insulti. I situazionisti hanno cercato di provocare gli altri ad agire in modo autonomo. Se le “vittime” delle loro rotture si sono mostrate incapaci di farlo, ciò non ha fatto che confermare la giustezza della rottura.

Progetti di natura differente richiedono differenti criteri. Cominciando dalla critica dell’ambiente culturale d’avanguardia nel quale si trovavano negli anni 50, quindi evolvendo verso una critica più generale del sistema mondiale, il progetto dei situazionisti era allo stesso tempo estremamente ambizioso e strettamente legato alla loro situazione particolare. Sarebbe stato assurdo per loro accettare di collaborare con coloro che non comprendevano la natura di questo progetto, o che erano legati a pratiche che erano in contraddizione con quest’ultimo. Il boicottaggio, da parte della I.S. di questa o quell’istituzione culturale, ad esempio, avrebbe evidentemente perso tutta la sua forza se uno qualunque dei membri dell’I.S. avesse continuato a mantenere relazioni con queste istituzioni. Uno dei loro primi articoli ha sottolineato il rischio di perdere la propria coerenza radicale nell’ambiguità dell’ambiente culturale:

Prese in questo quadro, le persone non hanno né il bisogno né la possibilità oggettiva di alcun tipo di sanzione. Si trovano sempre, nello stesso punto, educatamente (...) Il “terrorismo” dell’esclusione nell’I.S. non può minimamente essere comparato alle pratiche consimili nei movimenti politici, ad opera delle burocrazie che detengono un potere. Al contrario è l’ambiguità estrema della condizione degli artisti, in qualsiasi momento sollecitati ad integrarsi nella piccola sfera del potere sociale ad essi riservata, che impone una disciplina. Questa disciplina definisce chiaramente una piattaforma incorruttibile, che una volta abbandonata non si potrà riguadagnare. Altrimenti si avrebbe una rapida osmosi tra questa piattaforma e l’ambiente culturale dominante, per la molteplicità delle uscite e dei rientri. [I.S. nº 5, p. 3. Per altri articoli relativi alle rotture, vedere I.S. nº 1, pp 25-26; nº 10, pp 68-70; nº 11, pp 37-39.]

Basta ricordare quanti movimenti politici o culturali radicali hanno perso la loro audacia, e infine la loro identità, abituandosi a piccoli compromessi, ritagliandosi delle comode nicchie nel mondo universitario, aprendosi con i ricchi e la gente famosa, dipendendo dalle sovvenzioni governative o da fondazioni, piegandosi ai gusti degli spettatori, provvedendo a critiche ed intervistatori, ed adattandosi in tanti altri modi allo statu quo. Si può affermare senza pericolo di ingannarsi che se l’I.S. non avesse avuto una politica rigorosa in fatto di rotture e di esclusioni, avrebbe finito con il trasformarsi in un gruppo d’avanguardia amorfo ed inoffensivo, come tutti quelli che appaiono e spariscono ogni anno, e che sono citati soltanto nelle note in fondo pagina negli studi di storia della cultura. una questione pratica, non etica. Non si tratta soltanto del fatto che la pubblicazione dell’opuscolo De la misère en milieu étudiant [Sulla miseria nell’ambiente studentesco] sarebbe parsa ipocrita se i situazionisti fossero stati universitari. Se fossero stati universitari, non sarebbero stati capaci di scriverlo. La chiarezza dei testi dell’I.S. era legata direttamente all’intransigenza dei loro autori. Non si perviene ad una vera avanguardia senza avere rotto i propri legami con le routine e i compromessi intorno a sé.

Ma ciò che era opportuno per l’I.S. non lo è inevitabilmente per altra gente in altre circostanze. Quando i situazionisti erano isolati e quasi sconosciuti, hanno fatto bene a fare in modo che la loro prospettiva unica non fosse compromessa. Ora che questa prospettiva è condivisa da migliaia di persone ovunque nel mondo e non potrebbe assolutamente essere repressa (benché possa sempre, certamente, essere recuperata nei diversi modi), mi sembra che la vecchia boria situ trovi minori giustificazioni. Un gruppo radicale potrebbe sì decidere di separarsi da alcuni individui o da alcune istituzioni, ma avrebbe meno ragione ad agire come se tutto dipendesse dalla sua intransigenza, ed ancora meno a lasciar intendere che i suoi standards dovrebbero essere adottati da tutti.

La pratica della critica pubblica condotta dai situazionisti, che obbliga le persone a prendere posizioni nette e che tende così a produrre polarizzazioni radicali, ha avuto il merito di favorire l’autonomia; ma, in parte, credo, a causa di alcuni fattori che ho esaminato nel mio opuscolo sulla religione, questa pratica ha finito per sviluppare una sua dinamica autonoma ed irrazionale. Antagonismi personali sempre più insignificanti sono giunti ad essere trattati come gravi differenze politiche. Nonostante il carattere giustificato di alcune rotture, tutto il milieu situ è finito per sembrare abbastanza ridicolo a partire dal momento in cui quasi tutti si erano praticamente separati da tutti gli altri. Ed alcuni dei partecipanti ne sono stati così traumatizzati che hanno finito per respingere l’esperienza nel suo insieme.

Non sono mai andato fin là. Non ho mai rinunciato alla mia prospettiva radicale e, a parte alcune sfumature, fondamentalmente situazionista; e non ho alcuna intenzione di farlo. Ma sono stato scoraggiato dalla nostra rottura del 1977. Per anni ci ho pensato, provando a comprendere come era potuto accadere. Finché mi opprimeva, mi era difficile essere audace come lo ero stato prima in alcuni momenti. Continuavo a prendere note su diversi argomenti, ma ad eccezione di due o tre progetti che erano relativamente brevi e circoscritti, non fui capace di completare nulla. Oltre alle difficoltà oggettive attinenti agli argomenti stessi (il riflusso accelerato dell’attività radicale verso la fine degli anni 70, in particolare) c’erano inevitabilmente delle ramificazioni che riportavano al vecchio trauma.

Quando, in seguito alla rottura, mi trovai di colpo separato da molti dei miei migliori amici, e nell’incertezza riguardo a ciò che avrei fatto in seguito, pensai che fosse giunto il momento buono per andare in Giappone. Durante l’estate seguii un corso intensivo di tre mesi di giapponese all’università, ed in settembre presi l’aereo per Tokio.



NOTE

1. Benché il termine situazionista si sia applicato inizialmente ai soli membri dell’I.S., è stato usato successivamente in un significato più ampio, per designare altri individui che perseguivano attività più o meno simili. Qui come in altri miei scritti, il contesto deve generalmente far comprendere in quale senso uso il termine. Il passato è applicato di solito soltanto all’I.S.; il presente — come in gran parte di La società del situazionismo e di La realizzazione e la soppressione della religione — indica generalmente il significato più ampio.

2. Occorre citare un altro pensatore che abbiamo scoperto indipendentemente dall’I.S., e che ci ha molto influenzati: Josef Weber. Era il principale animatore di Contemporary Issues, rivista radicale poco conosciuta ma di notevole qualità che fu pubblicata a Londra tra il 1948 ed il 1970. Abbiamo imparato molto sulla storia recente leggendo gli articoli sensati e ben documentati dei vecchi numeri di CI, e abbiamo trovato molte idee stimolanti negli scritti penetranti, sebbene a volte abbastanza eccentrici, di Weber. (cfr l’articolo su Weber e CI in Notes and Reviews.)

3. Dopo l’assassinio di Jimmy nel 1972 (che fu forse il prodotto di una macchinazione COINTELPRO), hanno completato e pubblicato il libro con il titolo Bad: The Autobiography of James Carr (1975; reissued by Carroll & Graf, 1995). (Traduzione francese: Crève, Stock, 1978; ristampato recentemente da Ivréa.)


 

Parte 2 della versione italiana di Confessions of a Mild-Mannered Enemy of the State, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

No copyright.

Parte 3

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